domenica 25 maggio 2008

M. Pagano


Percorrevo quel tratto di sentiero rallentato dalla fatica, ma gustando anche dei passi, uno dietro l’altro, lenti e regolari, ma densi di qualcosa che non sapevo ben dire.

Ho sempre “avvertito” sensazioni diverse dal normale quando ero nei posti ove giovani di vent’anni hanno trascorso alcuni anni della loro adolescenza con il fucile in mano e la morte dietro l’angolo, invece di divertirsi come fanno oggi i nostri figli.


Ma stavolta è qualcosa di diverso ancora.


Difficile spigare i pensieri, non siamo allenati ad osservarli, li subiamo, li riceviamo come fosse pubblicità nella casella postale, ma mai li gustiamo, li assaporiamo come faremmo con del buon vino.


I miei ora vagano fantasticando: Salve signor colonnello!” odo nelle orecchie, mentre passo in rassegna quei ragazzi che stanno là a marcire sotto l’acqua di questo novembre freddo e maledetto. Il tenentino si affanna dietro a me, lui che dovrebbe essere giovane e scattante, pieno di fiato e voglia di gloria.. invece sento il fiatone. Non sa ancora dosare le forse, è arrivato da qualche mese ma ha fatto poche marce, è ancora cittadino nelle gambe.

Il sergente sorride, ci conosciamo da mesi, dall’inizio, quando eravamo sotto le bombe del Falzarego, sulla strada di Cortina, e siamo stati fianco a fianco nel fango, condividendo pane duro e paura, freddo e sentore di morte. Gli faccio un cenno, continuo a salire verso la cima, attento ai sassi, attento a improvvisi scoppi che vengano dal lontano fronte.

La nuvola avvolge la cima ed ammanta di nulla figure sfumate come fantasmi. Entra nelle ossa quel’umidità, entra nel cuore quell’aria densa di tristezza. Casa è lontana, il suo caldo, i suoi profumi di cibo e di camino, i suoi rumori a cui ci si addormenta stanchi e tranquilli, dopo le ore passate nei campi. Ora siamo qui, nella dannata terra fredda del ghiaccio di San Martino, ad arrancare per portare a casa questa pelle insecchita nell’intimo, da quel che vediamo ogni giorno.

Ci hanno detto che difendiamo la Patria, sappiamo bene che ci hanno raggirato. Raggirano sempre quando ti mandano a morire, ti devo inventare una nobile causa, una degna maniera di mettertela là.. e farti morire fiero della tua stupidità. Tu muori, loro.. stanno al sicuro. Tu soffri e stringi denti e culo, loro decidono del tuo culo e delle tasche di altri oltre che delle loro.

Ma il soldato ha questo destino, il soldato è per definizione, stupido nella sua aria di eroe, ma chi gliel’ha disegnata quell’aria..?

Hanno inventato musiche e arie che sentiamo la sera prima di provare a chiudere gli occhi, nell’attesa del fischio assassino. E noi quelle arie le fischiettiamo anche al cesso. Siamo proprio stupidi, noi che facciamo la guerra. La chiamano già guerra di Indipendenza.. ma da chi indipendenti?

Dalla morte siamo tutti terrorizzati, tutti insieme, siamo dipendenti..

Arrivo alla cima e sento il vento che mi ferisce la barba, il ghiaccio che si incrosta ed il fiato del tenentino che arranca. Mi infilo nella baracca e scattano sull’attenti, ma quando vedono che sono io, si rilassano, sanno che devono morire senza eroismo con me, che sono anche io stupido con loro.

Siamo un tutt’uno con queste bestie che fanno parte del mio reggimento, siamo cresciuti come bestie di un unico branco, ma questo ci fa stare bene insieme, ci si fida, senza guardare ai galloni ed alle mostrine, siamo fratelli veri.

Il fuoco arde stanco e lento. Il freddo entra dalle fessure ed il vento non si ferma affatto, ma ricopre la vita dentro quel buco di morte. I visi mi scrutano interrogandole mie rughe e i miei occhi, sanno che forse porto qualcosa, ma non sanno cosa. Potremmo spostarci in prima linea, potremmo avere una pausa per rifiatare prima di altra morte, aspettano quegli uomini, in silenzio, fissando questo comandante stanco, e vecchio che li abbraccia con il cuore.

Sono ufficiali, gente di montagna, graduati, ma soprattutto uomini, gente abituata a soffrire sui monti, con animali, con inverni freddi, con climi inospitali, da una vita. Sono gente dura, cresciuta fra monti e sofferenza, per questo alpini dell’VIII Reggimento. Osservano ma accetteranno tutto quel che porto loro. In una serata come questa non aspettano gioia, ma nemmeno temono il destino.

Apro la tasca della giacca, ne traggo una busta di tabacco, la pipa l’avevo in bocca da prima. Accendo, lentamente, li passo con lo sguardo, tutti, sorrido, gli voglio bene, sono i miei uomini. Le mie parole escono senza che io capisca da dove, senza che mi renda conto di cosa stia dicendo, vado in automatico, come fossi un magnetofono: “Stanotte l’Austria firma. Abbiamo vinto! Si torna a casa!”






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