giovedì 28 ottobre 2010

Claudio Rigon – “ I fogli del Capitano Michel “ – Ed. Einaudi


Ho recensito questo bel libro e mi piace mettere qui il mio commento per condividerlo.


Quando l'ho intravisto e poi preso, sullo scaffale del negozio, credevo che questo libro fosse un po' uno dei tanti, sulla Grande Guerra. Essendo un appassionato dei luoghi di montagna dove questa Guerra si è svolta, l'Ortigara ha, per me, un fascino speciale, ed ho letto diversi scritti, primo quello di G. Pieropan, pertanto credevo che questo scritto si attestasse un po' sulla scia dei molti libri di quel tipo.

Invece ho scoperto qualcosa di diverso e nello stesso tempo di intrigante e delicatamente affascinante.

L'autore, insegnante di Fisica nella scuola superiore, ed appassionato di foto dei campi di battaglia della sua zona, appunto l'Altopiano dei Sette Comuni, racconta di come abbia rinvenuto una serie di foglietti (circa duecentocinquanta) con i fonogrammi, conservati, di un certo Capitano Michel, riguardanti un periodo, piuttosto breve ai nostri occhi, (24/6/1916 – 29/7/1916) da lui trascorso col battaglione di alpini, di cui aveva appena assunto il comando, l'Argentera, e che testimoniano, mediante le parole scritte proprio in momenti cruciali di quel mese passato ai piedi dell'Ortigara, proprio nella zona “calda” del fronte dell'Altopiano, emozioni, e fatti, non i forma romanzata, bensì di descrizione indiretta di vita vissuta e dei problemi più o meno gravi e seri, di cui il capitano era allo stesso tempo protagonista e narratore inconscio , quasi un cronista della diretta per noi che leggiamo. Alla luce di ciò il periodo di poco più di un mese diventa un'eternità, perché ogni momento è stato vissuto con intensità e con emozioni degne di anni della nostra vita cittadina moderna.


Durante la lettura mi sono sentito quasi seguire l'autore, Claudio Rigon (al primo impatto davanti allo scaffale della libreria avevo creduto trattarsi di Mario Rigoni Stern, il famoso “sergente” di Asiago, non avendo letto bene il cognome dell'autore e ben mi incolse questa svista, portandomi un bel libro nelle mani!) nel suo sistemare i foglietti in ordine cronologico sul tavolo del Museo del Risorgimento di Vicenza, per dare un senso ed una coerenza temporale ai vari messaggi che via via tirava fuori da una o delle più buste della “Donazione Michel”.

Mi è parso quasi di stare alle sue spalle e leggere di sottecchi le parole tracciate a mano sulle carte ingiallite, e intuire anche le emozioni del ricercatore-lettore che con rispetto e cura, andava via via cercando di farsi un'idea di ciò che il capitano ed i personaggi che man mano comparivano nei suoi scritti, (personaggi realmente vissuti e alcuni anche morti, fra i sassi dell'Ortigara) avevano vissuto e provato.

E' metodico e tranquillo, mai noioso o statico, il lavoro di ricostruzione emozionale che Claudio Rigon svolge mediante questi “foglietti” e sa sapientemente intercalare, fra uno e l'altro di essi, alcune personali sensazioni ed intuizioni, come qualche, rara, citazione tratta da libri famosi come quello di Lussu (“Un anno sull'altopiano”), dipingendo via via, un quadro fatto di realtà e di uomini che hanno dato a quei luoghi ed a quei posti che anche io ho visitato rimanendone come stregato, una loro fisionomia, un senso, nell'insensata carneficina a cui sono stati sottoposti, loro malgrado.

L'abilità di Rigon sta nell'aver saputo fare ottimo uso del materiale che aveva: fogli che ad un primo impatto potrebbero apparire asettici e abbastanza vuoti di fatti per poter irretire l'attenzione del lettore. Si tratta di ordini anche molto sintetici dati nell'infuriare della battaglia o questioni di vettovagliamento o ancora relazioni di avvenimenti come diserzioni durante i momenti tragici di giorni in cui i soldati nelle trincee erano consapevoli di essere destinati a morte quasi certa, ovvero ancora piccole divagazioni su una penna stilografica che un ufficiale subalterno si era premurato di acquistare per lui ovvero su un orologio che doveva essere riparato, perché danneggiato nella confusione del combattimento.


Va a plauso dell'autore di questo libro, l'aver saputo anche inserire, sempre con molto rispetto per il lettore (e per la memoria dello stesso Capitano Michel) le notizie sul Capitano stesso: ben tre medaglie d'argento, tratteggiando l'immagine di ufficiale piuttosto scevro di retorica e finzione, che nell'animo aveva l'umanità che gli serviva, pur trattandosi di fatto di un eroe che del suo eroismo non ha mai fatto menzione, e di un ufficiale del Regio Esercito Italiano, nel 1916, per mettere con matura tranquillità, se stesso a svolgere il proprio compito per proteggere la vita dei “suoi”alpini ed assolvere il dovere di soldato mandato sull'Ortigara a combattere, e forse a morire.


Tutto ciò fa di questo libro una lettura non solo piacevole, ma direi da “sorseggiare” come si fa con del buon vino, per assaporarne il “corpo” e gustarlo e lasciare spazio alle emozioni nostre di lettori, grati a chi ha svolto un degno lavoro di ricerca e di ricostruzione fra il 2001 ed il 2009, e lo offre come qualcosa che può essere apprezzato da chiunque ne abbia l'animo. Noi lettori moderni, seduti comodamente nei nostri salotti, possiamo cercare soltanto di immaginare e forse lontanamente intuire le paure ed il coraggio di affrontarle, che uomini di vero spessore come il Capitano Michel, come appunto E. Lussu e tanti altri come loro, ci hanno mostrato, lasciandoci un esempio non fatto di parole, ma di vita vissuta.



domenica 17 ottobre 2010

Montagna giovane, montagna da giovane


Lo ricordo come fosse ieri: quel freddino nella schiena dopo che aveva piovuto la notte, quando uscivi nel pallido sole del mattino e speravi con tutto il cuore che la giornata ti ripagasse dell’avere atteso, con la pazienza che può avere un adolescente, l’esaurirsi della pioggia caduta il giorno prima.

Mi avviavo verso le montagne ancora grigio scure di roccia fredda e bagnata della notte e dell’acqua caduta, dove la luce del sole cominciava a carezzare pareti e spigoli vertiginosi che a quell’età mi mettevano anche un po’di ansia. Mi avviavo e mentre camminavo, pantaloni corti e calzettoni di lana sotto gli scarponi di vibram di cui tanto ero fiero, e zaino carico di cose mie, sentivo il bagnato dei fili d’erba che si trasmetteva ai calzettoni, mandandomi del freddo anche giù ai piedi, e sentivo le gocce che dai rami dei tanti abeti cadevano residue sui miei capelli corti di ragazzo.

Eppure ero felice, entusiasta anche di sopportare quel freddo (mi faceva sentire quasi un piccolo eroe che nessuno sapeva essere tale!), entusiasta dei lunghi giri che andavo facendo, esplorando e scoprendo posti strani e magici, in cui l’oro del sole dipingeva pareti rosa e ombre affascinanti, in cui profumi di abeti si mischiavano a quelli dei fiori dei prati pieni di caldo estivo ed ai rumori dei torrenti che attraversavo o dei sassi che rotolavano dalle pietraie più o meno scoscese e isolate.

Ero felice che appena arrivato dalla città, già nel pomeriggio (il treno da Roma viaggiava tutta notte e la “corriera” ci depositava di nuovo fra le montagne prima dell’ora di pranzo, dopo un anno passato a sognarle), andavo lungo il torrente che scorreva poco lontano da dove stavamo noi a cercare un ramo abbastanza lungo e flessibile ma non troppo, per farci un arco la cui corda era lo spago da pacchi che avevo già messo in borsa da Roma. Poi cercavo i rami, più difficili da trovare, dritti e fini, che avrebbero dovuto darmi le frecce, e me ne tornavo a casa, e mi sedevo sulla panchina di fuori, col coltellino che non lasciavo mai, e che mi faceva sentire novello Robinson, pur se fra i monti, e ripulivo tutti quei rami dalla corteccia e dai nodi del legno, che mi ostacolavano nel disegno che avevo, e pian piano realizzavo un bell’arco pronto a sparare frecce contro immaginari nemici. Arco che avrei portato in giro per 20 gg, il tempo di trascorrere le vacanze in quell’angolo di Dolomiti che mi vedeva diventare lentamente ragazzo e poi uomo e che non ho più visto molto, se non per tornare a scalare, ma mai più con il cuore che avevo allora.

Arrivava non sempre, il giornale, quel “Corriere” che oltre al quotidiano locale dei Ladini, era l’unica certezza culturale del periodo e del luogo. Bastava un po’ di pioggia forte e dura e un po’ di fiumi e torrenti gonfi d’acqua che la corriera ritardava la consegna e magari il giornale arrivava il giorno dopo. Non c’era la TV satellitare, né Internet o le cam che oggi mi portano a casa mia, lungo il mare, le immagini di quei monti in cui rimaneva a vivere un pezzetto del mio cuore, anche durante l’inverno. Non c’era nemmeno il bancomat. Ricordo quando fecero la prima discoteca, si chiamava “Le streghe” e noi allora ancora ragazzi sognavamo di andarci forse da grandi e magari ballare con quella biondina che veniva anche lei in vacanza da Bolzano e che mi occupava i pensieri, almeno per quel periodo che stavo là.

Ricordo la strada che non era nemmeno di asfalto, gli ultimi tre km che venivano dal centro importante, Canazei, era semplicemente una “strada bianca” eppure andava a due paesi dove viveva tanta gente e tanti villeggianti, e nessuno se ne faceva problemi, ci passava tranquilla anche al corriera tre volte al giorno.

Erano giorni felici, in cui con niente riempivo tanto tempo e me ne facevo riempire l’anima.

Con cose semplici di divertivo e sognavo e vivevo anche parte dei miei sogni.

Con poche tavole costruivamo una capanna, ogni estate e prima di tornare in città, la smontavamo e rimettevamo a posto tutto, eppure durante quei giorni la capanna era un rifugio più che sicuro e solitario, anche quando pioveva o era veramente brutto tempo, o perlomeno, per noi sembrava tale.. Erano giorni in cui andavo anche solo in greto al torrente, quell’Avisio che allora non aveva un argine di cemento nemmeno a sognarlo, e raccoglievo sassi, li spaccavo con la speranza di scoprire geodi di quarzo o ametista come quelli che vedevo esposti nei negozi in valle, ed io sognavo e sinceramente credevo di riuscire, a trovare il mio geode, non per venderlo, ma per sentirmi bravo anche io a scovare angoli nascosti della Natura. Mai trovai alcun geode, né altro che sottili vene di quarzo nei ciottoli lisciati dalla corrente fredda del torrente che veniva dal ghiaccio che stava su, sulla Regina, la Marmolada; mai colpii alcun bufalo o nemico, con quelle frecce mezze ricurve e tenere come la mia età di allora.

Ma nel cuore, oggi, che scendo in strada a comprare il giornale e un cornetto al mattino, dopo la pioggia della notte sull’asfalto, oggi che vivo ancora in città, ben sicuro dalle eventuali alluvioni, nel mio cuore di uomo che per ricordare quei giorni deve guardare un po’ lontano, inforcando occhiali da vista, rimane vivo tutto, il freddo nella schiena, la gioia dei rami da ripulire con coltellino di ragazzo, la semplicità vissuta ogni anno per 20 giorni e lentamente scomparsa per far posto al “progresso” anche là, fra le Dolomiti, rimane tutto ben sicuro e protetto e custodito, perché non posso dire che “allora era diverso e meglio” (come da sempre hanno fatto e fanno i vecchi!), ma che sia stato fortunato a godere di simili bei semplici e preziosi regali, e che questi regali li ho ancora qui, splendenti, questo lo posso dire, e questo mi illumina il sorriso e mi scalda il cuore, anche oggi.


Semplici cose, belle cose


Sono stato a cena, normale e tranquilla, anche se di compleanno. Oggi si usa fare feste e invitare in posti strani, si usa riempire di finzione tanta della nostra vita, così ci portano a fare e noi pensiamo di essere bravi a inventare, pur recitando copioni scritti altrove e non solo per noi. Invece, ieri non era questo, era qualcosa di molto meglio.

La case è semplice, non attico con terrazza da 90 metri quadri dove vai coi pattini, non vetrata che mira la notte della Città d’Arte facendoti sentire come se fossi in un appartamento al 40° piano di un gigante edilizio di New York, non mobili trovati in un mercatino artigianale che valgono fortune indicibili, seppur pagati quattro soldi, nulla di quello che i poveri figli di questo mondo che vive di apparenze, credono sia il sale della esistenza di ognuno. Nulla di tutto questo.

C’era calore, c’era sincerità, c’era amore in ogni cosa che ho vissuto, toccato e gustato.

Una casa normale, ultimo piano senza ascensore, eppure salire quelle scale ed ogni piano osservare i portoncini semplici come erano un tempo, è stato un piacevole viaggio di ritorno in case antiche eppure ancora belle, pur senza alcun ritocco di finzione moderna. Dentro, dove il sentire umano ha modellato tutto, mobili che potrebbero apparire banali altrove, davano sorriso al cuore di chi ci vive e di chi viene a visitare e riempiono noi stessi di bellezza, quella di chi li ha sistemati e che li ama, pur dovendolo fare forse per forza… eppure con tanta dolcezza e delicatezza. Quando sei in un posto avverti l’aria che tira, avverti quella che alcuni dicono esserne l’aura, e quella era luce vera, brillante eppur tranquilla, luce bianca di normale saggezza, dolce come la padrona di casa, intenta a preparare cose buone malgrado non piatti degni di essere citati da Artusi.

Il cane bianco come la neve che è impazzito di gioia e come un bimbo giocava e voleva attenzione, come faceva la figlia mia quando era bambina e amici venivano a trovarci e lei faceva il teatro. Gli animali sono istintivi e seguono il cuore, e lui, il cane bianco di neve faceva ugualmente e faceva il teatro e anche questo era giusto, era bello.

Cena di cose buone, tante, vino a condire e parole tranquille di poche persone messe attorno ad un tavolo da un sentimento, amicizia, semplice, sincera, non convegno, non solennità, non riti pagani e vuoti, ma normale stare bene e parlare di tutto e di nulla, eppure con semplice e tranquilla normalità condita di bello, di umanità e cuore.

Il cibo se fatto con amore, anche se crosta di pane, sembra dolce, il vino anche se da poco potrebbe sembrare un nettare, una casa da 70 metri potrebbe diventare una reggia. Ma all’uomo, quello vero, quello che vive la vita, quello sincero, non serve la reggia, né il nettare, serve la verità e la sincerità e serve stare bene, dentro. A me questo serviva e questo piace, stare a gustare una sera ascoltando anche soltanto, ricordi di concerti di Mina, come racconti di gesta dei cani, nostri compagni di vita e di viaggio, ricette di dolci fati con cose belle e semplici, come ricordi di vite passate secoli fa quando altre famiglie erano nelle nostre vite. A me questo piaceva di assaporare e la cena questo aveva nei piatti, funghi e belle parole, vino e bei sentimenti, auguri di compleanno e belle persone, persone semplici eppure così variegate, nella semplicità così ricche di quello che apprezzo della vita: sincera umanità e gocce cristalline di acqua della gioia che si vedeva negli occhi della padrona di casa, e che ognuno di noi sentiva dentro se stesso.

Questo è stato ieri, questo oggi rimane, quando il dopo non è malinconico ritornare e ricercare il passato, ma è arricchimento e piacere di rivedere il film vissuto come attore e visto come spettatore privilegiato, perché seduto nella fila preferita, la prima. Questo è il grazie che anche oggi posso dire alla vita che mi capita di incontrare nella mia strada.


mercoledì 13 ottobre 2010

Illuminazione di "basso livello"...


Avevo scritto parole dolci ed ispirate, pensieri e frasi che mi erano sgorgati da dentro, come accade sempre, quando mi metto al computer e come su un blocco per appunti, le mani scorrono sui tasti e formano pensieri che portano fuori il mio cuore e lo mettono in chiaro.

Avevo appena finito, rivisto e corretto, per lucidare bene l'opera, non d'arte, ché non sono arista, ma umana, molto umana, ché uomo mi sento e tale voglio essere, sempre.

Ero tornato alla banalità ed alla normale lotta che svolgo sul mio campo di battaglia, come ognuno fa quotidianamente, nascosto a sguardi indiscreti e forse stupidamente sciocchi.

Mi ero messo a lavare i panni.

Era molto il tempo: non mi andava di lavare, rimandavo da giorni ed ero allo stremo, dovevo farlo.

Lo avevo iniziato a fare.


Ripensavo a quel che avevo scritto.

Quando faccio lavori penso: la mente non riesce a concentrarsi soltanto su quel che faccio, specie se il lavoro non mi impegna troppo la mente. E lavare non impegna troppo...

Pensavo e ripensavo a tutto, a quel che i lettori avevano detto, ai commenti che avevo ricevuto ed anche al mio sentire quando avevo riletto ed ai sentimenti che avevo provato. Erano parole ispirate da amore, amore di padre e tenerezza che non tengo dentro me, ma che cerco di regalare non tanto spesso a lei, mia figlia, perché sono timido, bensì molto agli altri, forse perché un giorno qualcuno dica a lei che suo padre le ha voluto più bene di quanto è stato abile a dire, e magari anche per spingere qualcun altro a non essere timido come me...

Queste parole e questi sentimenti mi avevano addolcito la serata, era una serata di incipiente autunno, dove la pioggia appena esaurita si mischiava agli odori dell'ottobre vicino al mare.

Ed io facevo il bucato.

Lavavo a mano, per risparmiare: uomo solitario e solo, singolo padre che cerca di evitare sprechi, eco-uomo che vuol anche cercare di offrire un suo piccolo obolo, sull'altare sacrificale dell'equilibrio con la natura.


E mentre lavavo e sciacquavo e toglievo sapone e insaponavo ancora, un fulmine mi ha invaso il cuore: i miei ragazzi, alcuni in particolar modo!

Ne ho visto i visi e sentito le voci. Sono i ragazzi a cui tutti i giorni dedico forze e speranze, senza che loro forse se ne avvedano. Sono quei puledri tutto urla e corsa, maschi che scorrazzano nel maneggio della scuola domatori dove vivo e lavoro, ragazzi con cui vivo momenti che un giorno saranno ricordi di un passato sempre bello.

Il flash me li ha portati alla mente e nel cuore. I pensieri che prima avevo messo bene per la bambina che è nata dal mio sangue per mano di una mamma un dì mia moglie, ora erano pensieri e sentimenti che avvertivo e forti per loro, i puledri scalcianti di tutte le mattine. Ho avvertito un gettito di amore che mai avevo percepito così intenso e forte e li ho abbracciati, in cuor mio, mentre le mani strizzavano panni e strofinavano macchie di olio o altro.

Il fisico faceva cose che nulla avevano a che fare col cuore eppure qualcosa dentro, nel mio profondo, amava, come poche volte ho fatto, altri esseri umani e ne percepiva qualcosa di comune che non è solo umanità

Si crede nel Buddismo che la buddità è innata in tutti e che la percepiamo negli altri, la dovremmo vedere e percepire... sempre... e per questo si prega alla maniera buddista, cioè si recita, perché il buddismo non prevede preghiere a nessuno, ma un meditare a voce alta...

Ma io non stavo che lavando panni,... eppure amavo e sentivo quei puledri come miei intimi figli adottati un momento, miei interamente, stretti a me per non so qualche strano meccanismo del cervello o del cuore o di tutto me stesso, forse della mia buddità...

E sono stato felice. Non per me, bensì perché, per un istante, ho voluto veramente bene ad altri come mai era accaduto nel mio vivere fino ad oggi. Altri con cui non ho legami di sangue intendo, altri con cui il rapporto forse è occasionale.

Ora amavo! In quel minimo intervallo di tempo ho amato assai profondamente e ne sono stato ripagato, con una forma di felicità e serenità che non so descrivere, ma che ben ricordo ancora adesso.


I panni sono stati lavati, sono stati strizzati e stesi, sotto gli occhi attenti del gatto nero che da poco tempo fa parte aggiunta di una famiglia diversa da quella mia di un dì. E l'illuminazione è lentamente svanita, si è dissolta come l'immagine finale di un film in cui i due si allontanano mano nella mano ed i titoli di coda lentamente scorrono con la musica che prende il posto dell'immagine, e tu ti alzi contento di ciò che hai visto.

Così tutto si è cancellato, dallo schermo che avevo davanti nel mio fare il bucato, ma non dal cuore.


Sono rimasti i ragazzi, ma quelli li vedo ancora domani mattina, fanno parte delle mie mattine per nove mesi di almeno tre anni di seguito, se nulla accade a sconvolgere la vita di un professore come me.

Sono rimasti i sentimenti che ho avvertito, l'amore verso loro tutti, quell'abbraccio del cuore che non so dire bene, ma che era ed è chiaro ancora, ed è rimasta la traccia nel blu del cielo del mio animo, come un jet scandisce una linea lassù, così è rimasta quella traccia e la memoria. La memoria non tradisce, almeno non questa e ciò mi conforta, mi rimane il suo regalo e con questo ora chiudo le righe e la copertina del blocco elettronico, metto la parola fine, ed il lucchetto al cuore, per tenere al sicuro tutto questo, per chiuderlo in una cassaforte in cui solo io so dove andare a ricercare e dove solo io posso guardare.


Ma forse non sono solo... no, guarda qui anche tu... è bello veramente!



OdS


Sta per “Occhi di Serpente”: un soprannome che tanto mi è piaciuto, anni fa, quando raccontai ad una cara Amica, una sorella ed una Maestra per me, di coLei a cui poi avrei donato la vita mia, e che da poco avevo conosciuto, i cui occhi verdi, ricordavano quasi quelli di un serpente...

Era un'immagine che poteva apparire crudele e densa di violenza cruda, come poteva essere anche dolce e piena di qualcosa non ben definito, ma sicuramente al contrario della crudeltà.

Quegli occhi mi hanno accompagnato in momenti di questi ultimi anni ed hanno significato pietre miliari in passaggi significativi del mio errare quaggiù.


Sono quegli occhi che in certi momenti, quando il culmine del fisico si unisce al profondo del divino ed avverti qualcosa che non puoi dire a parole, ma intuisci essere molto prezioso e raro, in quei momenti, quegli occhi diventano verdi di un color del mare profondo e calmo e che lentamente, dolce, mi invade e si abbandona e mi coinvolge. Quella è Donna che ama e che vive intensamente momenti di amore non fisico, amore che attinge direttamente al mistico dello spirito, a qualcosa di sicuramente non terreno.


Occhi verdi che ti afferrano il cuore mentre ti cavalca e ti prende come se volesse afferrarti per non lasciare di te nemmeno una briciola a perdersi in quegli istanti sicuramente unici. Sono occhi di tigre che sta per divorare una preda che ogni volta si rinnova, in un pasto felino in cui chi mangia si fa mangiare e la preda è essa stessa parte della tigre: quegli occhi sono quelli con cui vedo me stesso o forse lo sogno soltanto...


Sono gli occhi verdi che si cerchiano di rosso quando dopo giorni di estasi di vita normale, arriva la scure del distacco, e la vita ci riporta alla crudeltà vera di qualcosa con cui non si dovrebbe fare i conti a cinquant'anni. Sono le lacrime che scendono e che non sai come fermare perché non hai parole né modo, perché sono le stesse che tu verseresti se solo potessi, ma non escono perché hai finito la tua dose... o forse non l'hai mai avuta..


Sono gli occhi con cui lei carezza il viso o tutto di me quando si avvicina dopo esserci separati, quando si torna a vivere dopo un intervallo in cui il respiro trattenuto è tale che dubiti esista ossigeno per tornare qui sulla terra dopo l'inferno. Quegli occhi che sorridono pur restando verde serpente, ma che di crudeltà dentro non ne portano nemmeno l'ombra. Ed allora vorresti baciarli quegli stessi occhi che ti hanno lasciato un segno che porti dentro per sempre.


Sono occhi di donna come di ragazza, di bambina che fissa il vuoto quando soffre e soffre tanto, che ridono quando vede un dono che può essere bambola come dolce, occhi che sanno di vita e che portano vita, a me, che li amo.

Questi occhi sono occhi di Lei!

Ma sono anche gli occhi di ogni donna, potrebbero essere i tuoi, o i tuoi o quelli laggiù... sono di tutte... io uomo non li avevo mai notati, ora ho capito che sono tanti.. sono tutti, e che ho la fortuna di poterne amare due speciali... per me solo!



Figlia in Amore


Qualche sera fa eravamo vicini, quasi all'ora di dormire, io a leggere un libro, lei, la ragazza, a chattare al telefono col suo boy. Pochi metri ci dividevano in questa stanza che condividiamo da non tantissimo tempo, da quando questo padre si è fatto carico di quel che all'uomo spesso pesa: decidere e tagliare, e prendere sulle sue spalle un peso che spesso si lascia alla madre. Ho preso rischi, ho preso insulti, poi lei ha capito, che sono un umano che sbaglia, ma che sa anche sgobbare, e nel tempo ha ripreso la confidenza di un tempo, ora diversa, ora che lei è una donna in miniatura...

Chattava e sentivo la sua vocina dolce, quella che la Mia Signora dice “la voce della papera” per indicare quando è poco Mistress e molto più Donna innamorata... e sentivo la sua, quella della ragazza... dolce che emanava amore e sentimenti che ho conosciuto tempo fa e che mi faceva strano ritrovare in lei.. nel sangue che viene dal mio.


Avevo sempre immaginato che forse mi sarei sentito strano, il giorno che avessi avuto la figlia innamorata, forse anche geloso, come tutti i padri (beh questo si sente dire e si legge!...) ed invece no.. non ero geloso, né avevo paura che lui, il boy, le potesse fare del male (tipico di quel genitore che sa solo lui come andrebbe trattata la figlia eternamente bambina anche a 50 anni!), invece ero contento, mi inteneriva, sentire sprazzi di parole dolci ed amorose che lei non intendeva affatto nascondere, sicura del fatto che non le avrei mai rinfacciato né rimproverato nulla (che dovrei rimproverarle? Essere donna innamorata?).

Gli animali sono belli perché da cuccioli sono come i grandi in miniatura, e lei era così, una cucciola, una donna in miniatura... faceva le prove di amore, e questo mi faceva tenerezza.. l'avrei abbracciata, ma l'avrei distratta e non era proprio il caso..

L'ho fatto col cuore.


Ho sorriso dentro me, sono stato felice per lei, per questo suo amore. Amore di quasi diciottenne... che non so se e quanto durerà, forse se lo porterà con sé nella vita, o forse fra qualche mese sarà un ricordo, non importa. Importa che lo viva e che le dia gioia.

Ma quel che mi è rimasto dentro ancora adesso che metto su carta i miei sentimenti, è quella voce che mi ha dato una carezza, a me che non ero con lei a chattare, anzi... e quell'accorgermi di avere una piccola donna accanto e non più una bambina... e di essermene accorto per tempo, nel silenzio di me stesso, senza dovermi traumatizzare magari in situazioni più memorabili...


Senza malinconia né rimpianti ho guardato indietro ricordandola bambina, veramente un flash di un attimo; sorridendo fra me stesso mi sono voltato sul cuscino ed ho chiuso gli occhi per lasciarmi al sonno di un altra notte come tante, eppure tanto diversa da altre...