lunedì 15 settembre 2008

Dej vu?


Il lupo è una meravigliosa creatura fatta di anarchia e spirito di gruppo, un essere indipendente, ma in sottile equilibrio con la rigida gerarchia del branco.

……

“Long may you run” che tu possa correre a lungo, fratello lupo!

(C. Grande “Terre alte”)


martedì 9 settembre 2008

Il sergente Mario



Ero venuto per l’Altipiano, per andare a trascorrere giorni selvaggi, per stare con me stesso e con LORO, i soldati che qui son morti, perché sentivo il richiamo, per fare un cammino di ricordi, e sono andato dove viveva lui, il “sergente Mario”.

Ero in un negozio a comprare cartoline: la gente ci tiene ad avere pezzi di carta di dove tu sei stato, magari non li vedrà mai quei posti, ma se ci vai tu e gli mandi pezzi di carta ed immagini di cose che hai visto tu, per loro è come andarci. Gli basta poco alle persone. A me serve toccare, vivere, andare e vedere, non mi basta la foto o la cartolina.

Sto pagando e vedo il suo libro, ma forse era “un” suo libro, non uno importante, per la gente, era importante per me! lo vedo e lo chiedo al commesso. Cerca negli scaffali, ma non trova: è “quello” il mio. Non trova e deve prendere quello della vetrina: era l’ultimo e me lo dà.

Era un libro del “sergente Mario”, è morto quest’inverno, e mi ha lasciato parole scritte in questo libretto.

Parla dell’inverno, dei suoi inverni, dei suoi ricordi di una vita, e parla alla gente che ascolta. Devo dire “ha parlato”, perché ora ha finito di dire quel che doveva, ora sta a chi ha ascoltato far tesoro delle sue parole, dei suoi ricordi, dei pensieri.

Sono poche pagine, mi sembra di aver trovato un vecchio manoscritto prezioso. E’ il mio tesoro nello scrigno. Me lo prendo dalla busta del commesso, me lo tengo nella mano, come fosse una gemma.

E improvviso il desiderio di vedere i posti che mi ha mandato nelle foto. I posti che vedeva dalle finestre della sua casa, per capire, per “sentire”.

Chiedo dove abitasse. Non lo sa il commesso. Forse non vuol dirlo.

Era “il nome” di Asiago, era “lo scrittore” di qui, e forse lo protegge, protegge la sua memoria dai turisti-animali: come non capirlo, farei lo stesso anche io!

Chiedo all’Ente di Soggiorno ed una impiegata giovane, pochi anni più di mia figlia, mi dice che lo sa dove abitava, il sergente Mario, ma non me lo può dire. Me lo dice ridendo, come si dice ai turisti, gli dici “no” e sorridi, così loro, “gli animali”, non si accorgono che li tratti da deficienti; loro “sono” deficienti. Vogliono solo vedere e dire “ci sono stato!”.

Ma a me non importa, io voglio respirare l’aria, voglio sentire ciò che lui sentiva, non mi interessa dirlo agli altri.

Non lei, ma il suo capo, avrà la mia età, capisce, sente che non sono un animale, almeno, non un animale da branco, che sono un lupo solitario e che cerco l’altro lupo che era “il sergente Mario”.

Sa che non andrò a dar fastidio, non andrò a toccare con le mie mani sudice ciò che è sacro perché era vero e puro.

Mi spiega, mi fa capire e quando vede che lo capisco, uno sguardo d’intesa. Sa che non farò del male.

Lo ringrazio e vado.

Contrada Rigoni, fuori dal paese, fuori dal casino. Me l’aveva detto il “sergente” che viveva là, che vedeva i campi e mi aveva mandato foto.

Ci eravamo parlati, per telefono, per lettera.

Gli dissi che assomigliava a mio papà, a quell’uomo che doveva andare con loro, con gli alpini, per portare i camion, e che non andò con la “Torino” in Russia, e per questo forse, si salvò dalla steppa. Ma avevano lo stesso animo, lui, il “sergente Mario” e mio papà, avevano qualcosa in comune che trovavo nei libri di Mario e nei fogli scritti di mio papà, e per questo lo cercai e glielo dissi.

Gli dissi sciocchezze, ma a lui fecero piacere. E mi mandò foto, di quel che vedeva da casa sua. Di quel che era la sua vita di allora. Vita semplice, dove cercava la memoria del passato nelle cose vere del suo presente. Vita fatta di cose vere, di cose forse sciocche a chi oggi corre a cercare benessere nel vuoto, cose stupide fatte di passato, ma che nel suo presente erano ancora molto belle.

E questo mi portava a rivedere mio papà, a riascoltare i suoi discorsi.

Mai tristezza e malinconia. Mai rammarico del passato. Solo il suo valore, la sua eredità nell’oggi, il “non dimenticare”.

Glielo scrissi al “sergente Mario” e lui capì. Ci si capisce sempre quando si tira fuori il proprio animo e si sta a parlare con chi ha orecchio dell’animo pronte ad ascoltare.

Mi scrisse lettere e parole belle. Mi disse che gli avevo fatto piacere e mi mandò foto, mi regalò immagini. Non le avevo nemmeno immaginate quelle zone, quei campi, quell’aria. Dalla foto non avevo idea di cosa fosse. Ora dovevo sentire quell’aria. Non mi importava della sua casa. Vai nella casa di un morto per sublimare quel che non sai immaginare, io non ne avevo bisogno. Io volevo l’aria, quel che intorno casa sua si respirava. Perché forse significa vita anche per me.

L’ho trovata la zona dove stava “il sergente Mario”, l’ho vista ed ho visto i campi. Non c’era nessuno, non c’era clamore. E’ bello ascoltare da soli la voce di un luogo, la ascolti e la interpreti come vuoi, la fai tua.

Non c’era nessuno, era pomeriggio, la gente era al lavoro, forse.

Ho sentito quell’aria. L’ho respirata.

Poi la sera l’ho ritrovata nelle pagine del suo libro, del “mio” libro.

Sono andato via. Avevo trovato quel che cercavo, non lui, il “sergente Mario”, ma forse un pezzetto di me stesso che mancava nel mio animo. Forse una parte della mia anima che s’era spersa nelle montagne dell’Altipiano, o forse un pezzetto dell’anima del mio papà.

La sera, da solo, fra gli alberi, nel silenzio e nell’oscurità che scendeva pian piano, ho letto le parole, ed i racconti della vita del “sergente Mario” ed ho capito. Ora so di cosa parla, ora lo vedo dove stava, ora ho capito.

Nel silenzio ho ringraziato, ho salutato questo uomo che non ho mai incontrato di persona, ma che è come fosse il fratello di mio papà. Non so cosa ci lega, non ne ho idea, ma so che lui mi ha dato qualcosa, che io ho qualcosa in comune con lui. Forse le memorie, forse il desiderio e l’apprezzamento per certi posti, per cose semplici e vere. So che lui ha avuto un peso in me e che non è stato per caso che sono andato da lui, nei “suoi” luoghi.

Ora posso dire che ho fatto quel che dovevo, forse lo dovevo a mio papà, o forse a me stesso. Ma oggi so che qualcosa in me è venuto da quel pomeriggio e da quei luoghi.

Ciao “sergente Mario” riposa con i tuoi compagni della steppa, ora li hai raggiunti, ora siete di nuovo insieme, uniti, compagni veri, fratelli nella vita e nella morte. Ciao amico a cui non ho stretto mai la mano, so che ora tu sei nella mia vita, in qualche angolo. Forse con parole, forse con sentimenti, ma so che ci sei. Sei vicino a mio papà, forse.

Io sono qui, sul mio campo di battaglia, nella mia steppa, e da te ho imparato lo spirito con cui combattere la mia ritirata dal Don: senza odio, ma senza cedere al freddo ed alla fatica. Vivendo ogni istante, ma senza dimenticare i piccoli momenti e le piccole cose.

E ricordando ogni istante come esperienza e non come dolore.

Ciao amico mio!


La “mia” Ortigara



Arrivo dalla “ferrata”, anche se vera ferrata non è, ma è la strada che mi ha portato da qui, o forse l’istinto, o lo spirito dei soldati, chi sa..

Salgo pensando a quei ragazzi: zaino pesante, nemici che ti aspettano ad ogni angolo, paura di morire, e non sai la ragione di questa vita che fai quassù, sull’Altipiano…

Salgo con il fiatone, non sono allenato: è da un anno che le gambe stanno ferme, ma sono “pieno” di questo posto, della sua atmosfera, mi sento pieno dell’Altipiano.

All’improvviso non un tedesco, non un colpo di fucile nel mio petto, non la morte temuta per ore e per giorni, ma un cippo di granito, un semplice pezzo di sasso con delle parole in tedesco, messe lì a ricordare che erano TUTTI ragazzi, di qualunque stirpe essi fossero, e qualunque lingua essi parlassero: bosniaco, veneto, tedesco, sardo, erano giovani che volevano vivere ed erano costretti lì a sopravvivere!

Due voci che parlano, ma quasi sussurrano. In questi posti non si urla, non c’è il turista che viene a vedere il panorama e mangiare polenta e luganeghe pagando con la carta di credito; qui si viene in silenzio, in pellegrinaggio, c’è chi va a vedere dove è apparsa la Madonna, c’è chi va a vedere dove si sono sacrificati giovani di vent’anni, per nulla, per pochi sassi… c’è chi fa entrambe le cose, ma sempre con rispetto.

E qui il rispetto è dovuto!

Uno sguardo con i due, un cenno di saluto, e proseguo, da solo, felice della mia solitudine. Ma non sono solo. Ci sono LORO a farmi compagnia, a guidarmi, a proteggermi: io sono venuto per LORO.

Di fronte, a 100 metri c’è un altro pezzo di sasso, un cippo italiano, con le parole italiane, a ricordare che la morte ha preso tutti, tutte le anime di quei giovani, per un nulla, per la pazzia di gente che nemmeno se l’immaginava cos’era l’Ortigara, per la quale quello era solo un nome su una carta, forse una cima vista da un binocolo, da km di distanza, ma che ha avuto la capacità di mandare a morire, al macello, ragazzi senza colpe, che erano il futuro della Patria, ed invece sono stati usati come oggi usano le vacche, per macellarli, e domani chiamarli eroi: vallo a dire alle mamme, alle morose, ai figli di quegli eroi del nulla!

“Per non dimenticare” c’è scritto su quel cippo messo lì dagli alpini appena pochi anni dopo quel macello. Eppure oggi tutto è dimenticato, e nuovi “eroi” vengono fabbricati da gente che siede comoda in salotti e poltrone, e loro, oggi non per la Patria o per un’abitudine ad ubbidire senza discutere, ma per soldi forse, per la speranza di poter costruire un futuro in qualche maniera, vanno a “fare gli eroi” in altre terre, desolate forse più dell’Ortigara, ma la danza è sempre uguale, vanno a morire per altri, che, vigliacchi, non hanno le palle per morire loro!

Mi siedo, nel vento.

Un vento freddo e senza clamore. Sono contento che non ci siano gli animali-turisti, qui stonerebbero questa musica, questo silenzio carico di memoria, che è una sinfonia.

Mi siedo sui sassi su cui uomini videro la loro vita per svanire, su sassi che furono l’unico riparo per ragazzi che amavano la vita come ora lo fa mia figlia. Siedo fra i sassi e sto in silenzio, osservo, ascolto, vivo questo posto.

Salgono due uomini, sono due di forse 60 anni o forse più. Li seguono tre persone, una famiglia: sono tre, i genitori ed un figlio come erano quelli che qui hanno dato la loro vita.

Arrivano e superano i due “vecchi” negli ultimi metri: sul filo del traguardo. Vincono una gara che non c’è mai stata, ma arrivano primi al cippo.

Non lo guardano nemmeno: “per non dimenticare” dicono le parole sul sasso, ma loro nemmeno vedono, loro vanno dritti oltre, vanno a suonare la campana dell’Ortigara. Hanno bastoncini da trekker, hanno scarponcini puliti, hanno abbigliamento adeguato, hanno fretta!

Loro non dimenticano, loro nemmeno sanno, forse nemmeno pensano, loro hanno vinto, corrono, senza guardare e senza ascoltare.

Passano e nemmeno mi guardano, sasso fra i sassi. Oggetto fra rocce senza vita, per loro…

Sto là, su una pietra a mangiare freselle e bere birra, come forse hanno fatto quelli che morirono qui. Ho capito perché al supermercato ho scelto le freselle: non era per non portare peso, non era per me, era dentro al mio animo che volevo accomunarmi con quei ragazzi. Loro mangiavano pane duro forse.. io per rispetto ho mangiato freselle.

Il vento mi abbraccia e osservo la scena, i due vecchi si fermano davanti alle parole scolpite. In silenzio, si fermano e qualcosa nel loro animo li prende, lo vedo, forse lo “sento”

Li osservo, e poi i loro occhi si posano nei miei: ci intendiamo, ci vogliamo bene in quel momento!

Sono istanti, sono attimi, ma in quei magici flash avverti la vicinanza, avverti qualcosa che ti unisce ad un altro essere umano. Sono resti di quell’istinto che è l’unica cosa che ha un animale per parlare con l’uomo, e che noi abbiamo perso nei secoli.

Ci fissiamo: un gesto anche con loro, nemmeno con la mano, ma con la testa. E poi loro vanno, in camino inverso al mio, verso l’altare sacrificale dei ragazzi di lingua tedesca.

Ed io rimango con LORO.

Mangio altre freselle, bevo la birra che rimane, Il vento mi fa compagnia.

Mi viene di stendermi a terra, mi getto disteso, come hanno fatto in migliaia, per non essere colpiti, per cercare di sopravvivere ore, o forse giorni, prima del momento decisivo.

Sto così, steso, in una buca: alzo gli occhi nel timore del piombo che mi ucciderà, forse un cecchino, un ragazzo come me, che è la per uccidere prima di essere preso.

Non arriva nulla, abbasso gli occhi e vicino al mio naso vedo un pezzo di piombo, una scheggia che sta lì da quasi cent’anni.

Potrebbe essere mia nonna, che mi racconta storie davanti al fuoco, a me bambino che l’ascolto vorace ed attento. Invece è solo un pezzo di piombo che forse ha portato via una vita, o qualcos’altro ad un vivo.

La osservo e le parlo, la ringrazio di farmi pensare e non togliermi la vita. Mi alzo e me la prendo, il mio ricordo dell’Ortigara!

Rimetto nello zaino i miei resti: la lattina e la carta delle freselle, le briciole le lascio, a qualche animale che verrà quando noi umani avremo tolto la nostra presenza, come avviene da secoli, anche prima della Guerra. Come è avvenuto dopo quel macello: loro, gli animali sono i veri custodi di questi luoghi.

Tornano indietro i “corridori”, sempre a passo spedito, sempre le bacchette da trekker, sempre la meta da raggiungere, sempre come prima, davanti al cippo uno sguardo, stavolta gli occhi sfiorano il cippo, ma poi tornano nei ranghi: forse sono bersaglieri, forse hanno da correre a conquistare l’altra cima, a cacciare il nemico dall’Ortigara.

Passano, proseguono e nemmeno sanno cosa non si deve dimenticare.

Scendo, lento, fra i sassi, passo nelle difese degli austriaci, quelle che hanno falciato 28.000 italiani; passo e sento il saluto di quelli che attendono la morte, moderni gladiatori, in lotta per sassi e gloria, gloria che non gli darà la gioia di vivere, nemmeno gli ha dato quella di morire, perché a vent’anni voglio sapere chi potrebbe desiderare la morte.

Mi allontano e scendo lento, e LORO mi salutano. Li ringrazio, in silenzio li tengo nel mio cuore.

Mi fermo, al baito, mi volgo indietro ed osservo la distesa di sassi da lontano, osservo quel deserto verde e grigio, questa è l’Ortigara!

Quando passo davanti al rifugio, in una piccola camera-ossario trovo resti di oggetti appartenuti a gente che qui è rimasta, forse senza una tomba; sono resti di ogni tipo, scarpe, scatolette, cinghie, schegge di bombe. Lascio la mia scheggia, non la porto con me, non la levo a questo monte: l’Ortigara mi ha dato qualcosa ed io non devo toglierle nulla. Metto lì quel pezzetto di piombo, in mezzo ad altri, anonimo fra anonimi, milite ignoto di piombo: in silenzio prego per LORO, mi sento sereno e torno alla mia auto, alla mia civiltà, ma so che LORO sono qui e che li posso tornare a trovare quando voglio.

Tornerò ragazzi!