domenica 17 ottobre 2010

Montagna giovane, montagna da giovane


Lo ricordo come fosse ieri: quel freddino nella schiena dopo che aveva piovuto la notte, quando uscivi nel pallido sole del mattino e speravi con tutto il cuore che la giornata ti ripagasse dell’avere atteso, con la pazienza che può avere un adolescente, l’esaurirsi della pioggia caduta il giorno prima.

Mi avviavo verso le montagne ancora grigio scure di roccia fredda e bagnata della notte e dell’acqua caduta, dove la luce del sole cominciava a carezzare pareti e spigoli vertiginosi che a quell’età mi mettevano anche un po’di ansia. Mi avviavo e mentre camminavo, pantaloni corti e calzettoni di lana sotto gli scarponi di vibram di cui tanto ero fiero, e zaino carico di cose mie, sentivo il bagnato dei fili d’erba che si trasmetteva ai calzettoni, mandandomi del freddo anche giù ai piedi, e sentivo le gocce che dai rami dei tanti abeti cadevano residue sui miei capelli corti di ragazzo.

Eppure ero felice, entusiasta anche di sopportare quel freddo (mi faceva sentire quasi un piccolo eroe che nessuno sapeva essere tale!), entusiasta dei lunghi giri che andavo facendo, esplorando e scoprendo posti strani e magici, in cui l’oro del sole dipingeva pareti rosa e ombre affascinanti, in cui profumi di abeti si mischiavano a quelli dei fiori dei prati pieni di caldo estivo ed ai rumori dei torrenti che attraversavo o dei sassi che rotolavano dalle pietraie più o meno scoscese e isolate.

Ero felice che appena arrivato dalla città, già nel pomeriggio (il treno da Roma viaggiava tutta notte e la “corriera” ci depositava di nuovo fra le montagne prima dell’ora di pranzo, dopo un anno passato a sognarle), andavo lungo il torrente che scorreva poco lontano da dove stavamo noi a cercare un ramo abbastanza lungo e flessibile ma non troppo, per farci un arco la cui corda era lo spago da pacchi che avevo già messo in borsa da Roma. Poi cercavo i rami, più difficili da trovare, dritti e fini, che avrebbero dovuto darmi le frecce, e me ne tornavo a casa, e mi sedevo sulla panchina di fuori, col coltellino che non lasciavo mai, e che mi faceva sentire novello Robinson, pur se fra i monti, e ripulivo tutti quei rami dalla corteccia e dai nodi del legno, che mi ostacolavano nel disegno che avevo, e pian piano realizzavo un bell’arco pronto a sparare frecce contro immaginari nemici. Arco che avrei portato in giro per 20 gg, il tempo di trascorrere le vacanze in quell’angolo di Dolomiti che mi vedeva diventare lentamente ragazzo e poi uomo e che non ho più visto molto, se non per tornare a scalare, ma mai più con il cuore che avevo allora.

Arrivava non sempre, il giornale, quel “Corriere” che oltre al quotidiano locale dei Ladini, era l’unica certezza culturale del periodo e del luogo. Bastava un po’ di pioggia forte e dura e un po’ di fiumi e torrenti gonfi d’acqua che la corriera ritardava la consegna e magari il giornale arrivava il giorno dopo. Non c’era la TV satellitare, né Internet o le cam che oggi mi portano a casa mia, lungo il mare, le immagini di quei monti in cui rimaneva a vivere un pezzetto del mio cuore, anche durante l’inverno. Non c’era nemmeno il bancomat. Ricordo quando fecero la prima discoteca, si chiamava “Le streghe” e noi allora ancora ragazzi sognavamo di andarci forse da grandi e magari ballare con quella biondina che veniva anche lei in vacanza da Bolzano e che mi occupava i pensieri, almeno per quel periodo che stavo là.

Ricordo la strada che non era nemmeno di asfalto, gli ultimi tre km che venivano dal centro importante, Canazei, era semplicemente una “strada bianca” eppure andava a due paesi dove viveva tanta gente e tanti villeggianti, e nessuno se ne faceva problemi, ci passava tranquilla anche al corriera tre volte al giorno.

Erano giorni felici, in cui con niente riempivo tanto tempo e me ne facevo riempire l’anima.

Con cose semplici di divertivo e sognavo e vivevo anche parte dei miei sogni.

Con poche tavole costruivamo una capanna, ogni estate e prima di tornare in città, la smontavamo e rimettevamo a posto tutto, eppure durante quei giorni la capanna era un rifugio più che sicuro e solitario, anche quando pioveva o era veramente brutto tempo, o perlomeno, per noi sembrava tale.. Erano giorni in cui andavo anche solo in greto al torrente, quell’Avisio che allora non aveva un argine di cemento nemmeno a sognarlo, e raccoglievo sassi, li spaccavo con la speranza di scoprire geodi di quarzo o ametista come quelli che vedevo esposti nei negozi in valle, ed io sognavo e sinceramente credevo di riuscire, a trovare il mio geode, non per venderlo, ma per sentirmi bravo anche io a scovare angoli nascosti della Natura. Mai trovai alcun geode, né altro che sottili vene di quarzo nei ciottoli lisciati dalla corrente fredda del torrente che veniva dal ghiaccio che stava su, sulla Regina, la Marmolada; mai colpii alcun bufalo o nemico, con quelle frecce mezze ricurve e tenere come la mia età di allora.

Ma nel cuore, oggi, che scendo in strada a comprare il giornale e un cornetto al mattino, dopo la pioggia della notte sull’asfalto, oggi che vivo ancora in città, ben sicuro dalle eventuali alluvioni, nel mio cuore di uomo che per ricordare quei giorni deve guardare un po’ lontano, inforcando occhiali da vista, rimane vivo tutto, il freddo nella schiena, la gioia dei rami da ripulire con coltellino di ragazzo, la semplicità vissuta ogni anno per 20 giorni e lentamente scomparsa per far posto al “progresso” anche là, fra le Dolomiti, rimane tutto ben sicuro e protetto e custodito, perché non posso dire che “allora era diverso e meglio” (come da sempre hanno fatto e fanno i vecchi!), ma che sia stato fortunato a godere di simili bei semplici e preziosi regali, e che questi regali li ho ancora qui, splendenti, questo lo posso dire, e questo mi illumina il sorriso e mi scalda il cuore, anche oggi.


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