giovedì 1 novembre 2012

La montagna e non la città...






La montagna e non la città!
Per me la montagna non è stata e non è tanto e solo parete da scalare, o pendio da salire, o massa che mi intimorisce ai cui piedi mi sento piccolo eppure parte di lei. La montagna è un modo di sentire, di essere, di percepire, è una selva di emozioni come un mazzo di fiori in cui c'è di tutto.

La montagna con la pioggia, forse la amo di più.
Ricordo di quando il cielo era basso e grigio di nuvole cariche di acqua, Quando le nuvole erano qualche centinaia di metri sopra me e carezzavano gli abeti vicino casa, ed era difficile mettere anche il naso fuori, perché pioveva, magari da mattina presto, quando invece del sole dietro il crinale che ci sovrastava, trovavi già le gocce che scendevano lente o intense, a seconda dei casi. La grondaia del terrazzino che faceva da tettoia e sotto cui mi mettevo a cercare di star fuori, all'aria, gocciava, portava acqua a terra, nella ghiaia bianca. Faceva freddo, anche se era magari estate, eppure amavo quei momenti, sentivo di stare bene, di essere là, in quel momento, una parte di qualcosa di unico.
Ero ragazzo, direi ragazzino, e non capivo bene, ora scrivendone, lo avverto chiaro.
“Il richiamo” era quello ed io d'istinto lo ascoltavo e lo vivevo, ero solo immerso in una rete ancora non visibile che man mano, negli anni si sarebbe sempre più chiusa, fino a mettermi ben bene nel sacco.
Ero felice, stavo bene.
Mi rintanavo magari sotto il piumino, o al tavolo a studiare o giocare a carte, al chiuso, osservando di sottecchi fuori, le gocce, la pioggia, il bagnato in terra, a sentire quei momenti, avvertirne l'odore e rubarne l'aroma, come un orso ghiotto fa con il profumo del cestino della merenda che intende andare ad esplorare...

Eppure ero felice anche quando tornava il sole. Uscivo nel mattino freddo, perché era freddo e lo sentivo sulle gambe, avevo spesso i pantaloni corti, anche a vent'anni. La pelle d'oca e il freddo sul viso o sulle mani. Eppure i raggi facevano capolino dietro allo spigolo nero che sovrastava la valle dove vivevo quei momenti splendidi come mai. Uccellini piccoli credo, a giudicare dal loro verso, iniziavano a cantare lodi o gioia di vivere, un venticello freddo eppure dolce mi avvolgeva quando dal caldo della casa uscivo su quella stessa ghiaia bianca che assorbiva la pioggia e ne godevo il tutto che non so bene manco cosa fosse veramente.
Freddo che sentivo forte quando uscivo dal caldo del rifugio, più in alto, sotto le pareti, ed ancora nell'ombra fredda della notte, pur se il cielo era azzurro pel giorno che si stava alzando. Uscire era bello, anche stare là, in silenzio, ché la maggior parte di noi era ancora assonnata, e i pochi che preparavano gli zaini o le corde e i moschettoni, erano silenziosi, forse avvertendo, incoscienti, che erano momenti sacri, quelli.
Era tutto bello, era magnifico, ora lo so!
Stavo bene!

Montagna e non città. Dove venivo riassorbito, risucchiato da tutto. Una giostra, come l'ha descritta Terzani, da cui scendere è diventato sempre più difficile, finanche impossibile quasi.
Piovra che ti avvolge e stringe fino alla gola per soffocarti ed impedirti di essere animale in nome della civiltà o peggio, del progresso.
Eppure oggi non mi sento progredito, se guardo indietro agli anni spesi. Avrei potuto spenderli forse più ad osservare gocce cadere dalla grondaia o le nuvole grigie nel cielo basso o a rabbrividire nel freddo del mattino. Ma la vita non ha deciso così per me, ha lasciato che arrivassi fino ad oggi. Ma oggi riaffiora il ricordo e la nostalgia. Sono momenti condivisi con amici che ormai sono molto più assorbiti di me, perché convinti che “così va la vita”.
Io no!
Nel ricordare, nello stesso scrivere ora, ho un dolore sordo allo stomaco, dentro. Ho male e allo stesso tempo sorge forte incomprimibile, la decisione, irrinunciabile.
Ne approfitto, sto segando la fune che mi tiene qui, e piano piano la lama, seppure rovinata dal tempo, arrugginita forse, sta sfilacciandola, la fune, e vedo i trefoli staccarsi, spezzarsi e dividersi e sento la tensione che sta diminuendo, sento che sta per staccarsi tutto e farmi fare il balzo; forse con lo strattone dello strappo cadrò e mi farò anche graffi, ma staccherò la fune, la sto staccando e tornerò ad assorbire quegli odori, di pino bagnato, di terra umida di pioggia o di sole nel mattino, ad aprire i polmoni all'aria fresca e fredda, o ad immergere il viso nell'acqua gelida della fontana. Non ci saranno più materialmente quelle persone che un tempo c'erano. Ne avvertirò la mancanza. Ma è una pagina nuova, non serve dolersi della vecchia, non si gira indietro, non si può. Però tornerò là e ringrazierò di questa fortuna: avere il desiderio di vivere.
Per me quella è la Vita: “la montagna e non la città”!


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