sabato 28 maggio 2011

Canto nel mattino




Quando pochi raggi di luce filtrano nell'aria, quando anche con le nuvole grigie sulla nostra testa, e quindi il sole non intende alzarsi dal suo sonno, appena poca luce riesce ad emergere, lui, quel piccolo uccello che abita sull'acero di fronte alla mia finestra, si sveglia ed inizia il suo canto. Verso di vita per lui, canto per me, umano che non ho tale dote.

Sono le 5 del mattino, poi le 5 e mezza, poi le 6, e poi ancora trascorre il tempo, e lui imperterrito, con costanza che umano non avrebbe, canta ripetutamente e ripete il verso che sa fare, il suo inno alla sua vita, forse incosciente, senza nemmeno porsi la questione di cosa stia facendo.

Siamo noi umani, cosiddetta specie evoluta, che ci poniamo simili quesiti, lui piccolo uccello di normali colori e che vive in una normale cittadina del litorale romano, si accontenta di essere vivo e di gridarlo al mondo, a suo modo. E lo fa ripetutamente, come una macchina che martella, come il trapano pneumatico che fra poco inizierà a bucare per permettere alla fibra ottica di essere posata ed evolvere la nostra vita umana, portando internet dovunque, nelle nostre case.

Lui l'uccello, non so nemmeno di quale specie sia, se passero, se colibrì, se uccello esotico emigrato qui da cieli blu dell'Africa o nato da mamma indigena in quest'albero, lui vive senza internet, canta, fa la sua normale piccola e sconosciuta vita, e la trascorre, tranquillo.

Eppure ogni mattina ripete quel verso, mille e mille volte, ed ora anche che ne sto scrivendo, ripete con la regolarità di una macchina, ogni gionro che la sua vita si svolge.


Ricordo un giorno, anni fa, alle pendici di una montagna delle infinite che ho visto ed ammirato in silenzio, grato. Ricordo l'acqua di fusione del ghicciaio: sgorgava da un buco grigio della ghiaia della morena di fronte a cui mi ero seduto, e lo faceva con forza, e lo faceva di continuo, grande getto di grigio freddo eppure affascinante.

Stetti là molto tempo, ad osservare, forse, sotto sotto, aspettando che il flusso diminuisse, come quando sbuchi gli scarichi dei terrazzini di città, dove si è accumulata l'acqua della pioggia, e tu sturi lo scarico, levi le foglie secche che lo hanno intasato, e l'acqua sgorga, con forza, per poi, lentamente, spegnersi e diventare goccia che va a morire.

Quel ghiacciaio no, non faceva spegnere niente. E mi scopersi a pensare meravigliato ed attonito a quanta acqua, ogni giorno, senza posa, usciva da quel buco, e di quanta forza ci fosse in quel punto ed in quella immagine.

Noi umani spesso ci meravigliamo di tante cose che per la Natura sono del tutto normali, come il bambino estasiato di fronte alla barba portata via dalla lametta del rasoio del papà: a lui sembra magia, mentre il papà ha perso quella meraviglia di fanciullino innocente.

Noi umani di fronte alla Natura siamo così, e questo alle volte ci riempie di semplice e bella meraviglia, per fortuna ancora.

Ricordo mi colpì l'idea che io sarei andato via, e la notte, nel buio, senza dover vedere per cercare la strada, quell'acqua, sarebbe continuata a sgorgare, e così il giorno dopo, e così da chissà quanto tempo e per quanto ancora.


L'uccello continua a strillare il suo verso. Non è un cinguettio semplice, è un canto complesso ed articolato. Non so cosa significhi, ma lui lo ripete, infinite volte.


Noi umani abbiamo inventato un simbolo, un otto coricato, per dire infinito, per simboleggiare un qualcosa che si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi, e noi neppure vediamo, o scorgiamo ma lasciamo avvenire senza degnare di un occhio diverso. Noi umani ci arrabbattiamo nelle piccole lotte penose se viste da fuori o nell'osservare gente che reputiamo famosa, fare cose insulse, e stiamo là, allocchi a bocca aperta, ad ammirare, estasiati, e ce ne beiamo, perché quello asssorbe la nostra mente, l'animo, le emozioni.


Quell'uccello, nella normalità del verde di un acero, da anni e per anni, o forse no, continua una meraviglia a cui nessuno dà attenzione.

Le nuvole ogni mattina scorrono nel cielo, sempre diverse, eppure sempre le stesse, sempre vapore di acqua e sempre dal basso provengono e per secoli lo hanno fatto e se umano non altererà eccessivamente la loro vita, per secoli ancora lo faranno.

Un disco rosso ed uno bianco, ad ogni giro di boa, si alternano nel cielo, facendo a gara e rincorrendosi. Fratello e sorella per Franceso, che li aveva notati e ne era rimasto, lui sì, abbagliato e ammirato e ripieno di gratitudine, per quell'infinito corrersi dietro che si svolgeva dall'infinito passato e di cui ci eravamo dimenticati. Fratello e sorella giocano ogni giorno ed ogni notte, senza gridare il loro gioco, eppure donandocene la grazia e il pregio, eppure noi andiamo e passiamo oltre..non ti curare di loro disse il Poeta, ma in questo caso non sarebbe il caso. Sarebbe forse di curarsene e fermarsi un attimo.


Passa la vita, trascorre, e la impieghiamo a costruire castelli di nulla, che poi distruggiamo perché ce ne stanchiamo. Castelli d'oro abbiamo sotto gli occhi, trame d'argento e diamanti preziosi. Sono solo mischiati nel normale, come i disegni della Settimana Enigmistica: si devono annerire gli spazi con i puntini neri e l'immagine compare, ed allora, come bambini, restiamo là a bocca aperta per la scoperta fatta.

Allora taciamo e ammiriamo.


Sull'acero il piccolo uccello fa una pausa, forse è stanco, forse si è annoiato di ripetere la stessa cosa, si è alienato direbbe qualche filosofo politico.

Scrivo un altra riga, ma lui riprende, non sa cos'è la politica, per fortuna sua, né la filosofia, e riprende il suo verso, sorrido fra me, guardo nel verde, rami folti, verde intenso, il cielo è grigio dietro al verde, oggi credo pioverà.

Mando un saluto al mio amico.

Ma lui non lo sa, che cos'è un amico, vive, questo gli basta.


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