domenica 13 febbraio 2011

Walter BONATTI - “Un mondo perduto” -



Avrò avuto più o meno fra gli 8 ed i 10 anni quando, piccolo ragazzino ancora coi pantaloni corti, nel portagiornali di legno del salotto di casa mia, trovavo una rivista in bianco e nero e che a colori forse aveva (forse!) appena la copertina, il cui titolo era “EPOCA”.

Ne ricordo le pagine con gli angoli un po' arricciati, le “orecchie” le chiamava mio papà, e mi ricordo molto vagamente, un nome che vidi scritto su un servizio all'interno di quella rivista: W. Bonatti.

Ero una ragazzino, non sapevo nulla di montagne, se non quel poco che vedevo in estate quando, con i miei genitori, percorrevo i sentieri delle Dolomiti, orlati di creste grigie e acute, ma di cui al tramonto neppure avvertivo il bel rosa che tante emozioni avrebbe provocato anni dopo, nel mio cuore.

Quando circa vent'anni più tardi percorrevo scalando, alcuni vie di roccia a cui mi sentivo di accostarmi, il nome di Bonatti era ormai un mito, ma passato, ormai nella storia dell'alpinismo, e quasi inarrivabile, di cui non avevo letto nulla, ancora giovane ignorante, teso com'ero ad arrampicare io stesso, senza indagare il perché di tante vie che ripercorrevo...


Poi, un anno fa, in pieno XXI secolo, ormai uomo più che nella matura età, un gionro mi trovavo in fila ad attendere il mio turno per pagare un conto corrente, in un ufficio postale, di quelli ove oltre che le operazioni di posta, oggi, fai anche la spesa... (moderna conquista del progresso!) e lo sguardo è caduto su un volume bianco di cui non mi ha colpito il titolo, bensì l'autore: W. Bonatti. Era offerto con il prezzo scontato, ma quel che conta è che era scritto da quel Bonatti che ormai quarant'anni fa, scriveva su quella rivista con le “orecchie” agli angoli delle sue pagine. Ed allora un flash, nel salotto dei miei genitori, la poltrona e la rivista e quelle foto... ed ho sfogliato il libro, deciso dentro me, che lo avrei comprato, costasse quel che costava.


Come avviene con i libri che sento valgono, non l'ho letto d'un fiato, ma l'ho centellinato, come faccio sempre, come con una bella bottiglia di Porto. E non me ne sono pentito.

Non racconta le scalate, stavolta, ma della carriera che Bonatti ha intrapreso una volta messi gli scarponi al chiodo, quando, nel 1964, per dirla con parole sue :”meschinità ed incomprensioni sempre più profuse dal mondo della montagna, avevano finito per indurmi, finalmente, ad uscire da quell'ambiente”, cominciando, l'anno seguente la professione di inviato per Epoca. (Nel 1965 io avevo 9 anni e quindi i miei ricordi non erano poi del tutto sbagliati...)

In questo libro l'alpinista trasformatosi in esploratore, raccoglie alcuni suoi scritti elaborati fra il 1964 appunto, ed il 1976, in cui racconta di viaggi intrapresi sempre con lo spirito di scoprire non con intento sportivo, né per il gusto di impresa eroica, bensì per andare a capire, calandosi nei luoghi e fra la gente di quei luoghi che osservava, cosa ci fosse dentro i luoghi stessi, cosa animasse e tenesse vive le zone che via via andava traversando, spessissimo a piedi e da solo, quasi sempre senza armi pur nel rischio di imbroccare qualche tigre o qualche orso.

Si passa dalla freddissima Siberia all'Africa deserta, dall'Antartide all'Isola di Pasqua, traversando luoghi sconfinati e deserti, e lasciando il lettore a sognre, come quando, ragazzi, si leggevano i libri di avventure, solo che qui si parla di avventure vere, vissute.


Quello che ne emerge, a mio parere, è un Uomo, che rispetta il luogo tutto ove va a passare, che cerca di capirlo e non di aggredirlo ed addomesticarlo; quello che colpisce é il sentimento di ammirazione e meraviglia di fronte a fenomeni naturali, a cose nemmeno immaginate dalla maggioranza di noi, ma soprattutto dalla genuina curiosità di imparare, come Uomo, cose che poi serberà nel suo cuore e di cui le foto o le parole, poco potranno riportare, se non sprazzi fugaci che colpiranno o meno l'immaginazione e.. il cuore di chi legge, col cuore.


Uomo fortunato si potrebbe dire e credo sia la verità, sebbene anche disposto a barattare sicurezze e certezze di un vivere “normale” con l'incertezza di un lavoro che poteva anche portarlo a finire i suoi giorni, in modo improvviso.


Quando chiude il libro (nel 2009), Walter Bonatti ha quasi 80 anni e quello che mi colpisce è il tipo di riflessioni sul rispetto sincero ed intrinseco e non soltanto formale, che avverto in lui, verso l'ambiente in cui viviamo, verso la terra tutta, la constatazione di come l'uomo stesso sia causa del suo male, che consiste nell'erodere lentamente la terra su cui vive e da cui trae la vita. Non lamenti, non i soliti ululati di cane bastonato e vecchio che tanti anziani sono soliti fare, bensì, semplicemente un chiaro esporre fatti, realtà, davanti agli occhi di chi vuol vedere, di chi legge e vuol capire.


Chiudendone le pagine, un dolce sorriso rimane nel mio cuore al ricordo di una frase che gli viene donata durante il viaggio alla ricerca delle sorgenti del Rio delle Amazzoni, quando un indio, la cui vita povera e semplice si svolgeva fra quei monti della Cordillera Chila ove Bonatti con un amico, era ad esplorare, li accoglie stanchi ed affamati, nella sua povera capanna ed offre loro la semplice zuppa che ha da mangiare per sé e per la sua famiglia, dividendola con loro, capitati là all'iimprovviso: “Vi saluto e vi chiedo di servirvi come un fratello, certo di poter avere il vostro aiuto nel bisogno!”

Questo spirito, semplice, ma sincero, diretto e senza fronzoli, mi rimane realmente come un tesoro, in un angolo di cuore, come insegnamento, da un indio sconosciuto, a me uomo del XXI secolo, immerso nella globalizzazione.

Di questo apparentemente banale e sciocco “insegnamento”, per me prezioso e per nulla banale, dico grazie a questo uomo di un'altra epoca!


Nessun commento: