martedì 9 settembre 2008

La “mia” Ortigara



Arrivo dalla “ferrata”, anche se vera ferrata non è, ma è la strada che mi ha portato da qui, o forse l’istinto, o lo spirito dei soldati, chi sa..

Salgo pensando a quei ragazzi: zaino pesante, nemici che ti aspettano ad ogni angolo, paura di morire, e non sai la ragione di questa vita che fai quassù, sull’Altipiano…

Salgo con il fiatone, non sono allenato: è da un anno che le gambe stanno ferme, ma sono “pieno” di questo posto, della sua atmosfera, mi sento pieno dell’Altipiano.

All’improvviso non un tedesco, non un colpo di fucile nel mio petto, non la morte temuta per ore e per giorni, ma un cippo di granito, un semplice pezzo di sasso con delle parole in tedesco, messe lì a ricordare che erano TUTTI ragazzi, di qualunque stirpe essi fossero, e qualunque lingua essi parlassero: bosniaco, veneto, tedesco, sardo, erano giovani che volevano vivere ed erano costretti lì a sopravvivere!

Due voci che parlano, ma quasi sussurrano. In questi posti non si urla, non c’è il turista che viene a vedere il panorama e mangiare polenta e luganeghe pagando con la carta di credito; qui si viene in silenzio, in pellegrinaggio, c’è chi va a vedere dove è apparsa la Madonna, c’è chi va a vedere dove si sono sacrificati giovani di vent’anni, per nulla, per pochi sassi… c’è chi fa entrambe le cose, ma sempre con rispetto.

E qui il rispetto è dovuto!

Uno sguardo con i due, un cenno di saluto, e proseguo, da solo, felice della mia solitudine. Ma non sono solo. Ci sono LORO a farmi compagnia, a guidarmi, a proteggermi: io sono venuto per LORO.

Di fronte, a 100 metri c’è un altro pezzo di sasso, un cippo italiano, con le parole italiane, a ricordare che la morte ha preso tutti, tutte le anime di quei giovani, per un nulla, per la pazzia di gente che nemmeno se l’immaginava cos’era l’Ortigara, per la quale quello era solo un nome su una carta, forse una cima vista da un binocolo, da km di distanza, ma che ha avuto la capacità di mandare a morire, al macello, ragazzi senza colpe, che erano il futuro della Patria, ed invece sono stati usati come oggi usano le vacche, per macellarli, e domani chiamarli eroi: vallo a dire alle mamme, alle morose, ai figli di quegli eroi del nulla!

“Per non dimenticare” c’è scritto su quel cippo messo lì dagli alpini appena pochi anni dopo quel macello. Eppure oggi tutto è dimenticato, e nuovi “eroi” vengono fabbricati da gente che siede comoda in salotti e poltrone, e loro, oggi non per la Patria o per un’abitudine ad ubbidire senza discutere, ma per soldi forse, per la speranza di poter costruire un futuro in qualche maniera, vanno a “fare gli eroi” in altre terre, desolate forse più dell’Ortigara, ma la danza è sempre uguale, vanno a morire per altri, che, vigliacchi, non hanno le palle per morire loro!

Mi siedo, nel vento.

Un vento freddo e senza clamore. Sono contento che non ci siano gli animali-turisti, qui stonerebbero questa musica, questo silenzio carico di memoria, che è una sinfonia.

Mi siedo sui sassi su cui uomini videro la loro vita per svanire, su sassi che furono l’unico riparo per ragazzi che amavano la vita come ora lo fa mia figlia. Siedo fra i sassi e sto in silenzio, osservo, ascolto, vivo questo posto.

Salgono due uomini, sono due di forse 60 anni o forse più. Li seguono tre persone, una famiglia: sono tre, i genitori ed un figlio come erano quelli che qui hanno dato la loro vita.

Arrivano e superano i due “vecchi” negli ultimi metri: sul filo del traguardo. Vincono una gara che non c’è mai stata, ma arrivano primi al cippo.

Non lo guardano nemmeno: “per non dimenticare” dicono le parole sul sasso, ma loro nemmeno vedono, loro vanno dritti oltre, vanno a suonare la campana dell’Ortigara. Hanno bastoncini da trekker, hanno scarponcini puliti, hanno abbigliamento adeguato, hanno fretta!

Loro non dimenticano, loro nemmeno sanno, forse nemmeno pensano, loro hanno vinto, corrono, senza guardare e senza ascoltare.

Passano e nemmeno mi guardano, sasso fra i sassi. Oggetto fra rocce senza vita, per loro…

Sto là, su una pietra a mangiare freselle e bere birra, come forse hanno fatto quelli che morirono qui. Ho capito perché al supermercato ho scelto le freselle: non era per non portare peso, non era per me, era dentro al mio animo che volevo accomunarmi con quei ragazzi. Loro mangiavano pane duro forse.. io per rispetto ho mangiato freselle.

Il vento mi abbraccia e osservo la scena, i due vecchi si fermano davanti alle parole scolpite. In silenzio, si fermano e qualcosa nel loro animo li prende, lo vedo, forse lo “sento”

Li osservo, e poi i loro occhi si posano nei miei: ci intendiamo, ci vogliamo bene in quel momento!

Sono istanti, sono attimi, ma in quei magici flash avverti la vicinanza, avverti qualcosa che ti unisce ad un altro essere umano. Sono resti di quell’istinto che è l’unica cosa che ha un animale per parlare con l’uomo, e che noi abbiamo perso nei secoli.

Ci fissiamo: un gesto anche con loro, nemmeno con la mano, ma con la testa. E poi loro vanno, in camino inverso al mio, verso l’altare sacrificale dei ragazzi di lingua tedesca.

Ed io rimango con LORO.

Mangio altre freselle, bevo la birra che rimane, Il vento mi fa compagnia.

Mi viene di stendermi a terra, mi getto disteso, come hanno fatto in migliaia, per non essere colpiti, per cercare di sopravvivere ore, o forse giorni, prima del momento decisivo.

Sto così, steso, in una buca: alzo gli occhi nel timore del piombo che mi ucciderà, forse un cecchino, un ragazzo come me, che è la per uccidere prima di essere preso.

Non arriva nulla, abbasso gli occhi e vicino al mio naso vedo un pezzo di piombo, una scheggia che sta lì da quasi cent’anni.

Potrebbe essere mia nonna, che mi racconta storie davanti al fuoco, a me bambino che l’ascolto vorace ed attento. Invece è solo un pezzo di piombo che forse ha portato via una vita, o qualcos’altro ad un vivo.

La osservo e le parlo, la ringrazio di farmi pensare e non togliermi la vita. Mi alzo e me la prendo, il mio ricordo dell’Ortigara!

Rimetto nello zaino i miei resti: la lattina e la carta delle freselle, le briciole le lascio, a qualche animale che verrà quando noi umani avremo tolto la nostra presenza, come avviene da secoli, anche prima della Guerra. Come è avvenuto dopo quel macello: loro, gli animali sono i veri custodi di questi luoghi.

Tornano indietro i “corridori”, sempre a passo spedito, sempre le bacchette da trekker, sempre la meta da raggiungere, sempre come prima, davanti al cippo uno sguardo, stavolta gli occhi sfiorano il cippo, ma poi tornano nei ranghi: forse sono bersaglieri, forse hanno da correre a conquistare l’altra cima, a cacciare il nemico dall’Ortigara.

Passano, proseguono e nemmeno sanno cosa non si deve dimenticare.

Scendo, lento, fra i sassi, passo nelle difese degli austriaci, quelle che hanno falciato 28.000 italiani; passo e sento il saluto di quelli che attendono la morte, moderni gladiatori, in lotta per sassi e gloria, gloria che non gli darà la gioia di vivere, nemmeno gli ha dato quella di morire, perché a vent’anni voglio sapere chi potrebbe desiderare la morte.

Mi allontano e scendo lento, e LORO mi salutano. Li ringrazio, in silenzio li tengo nel mio cuore.

Mi fermo, al baito, mi volgo indietro ed osservo la distesa di sassi da lontano, osservo quel deserto verde e grigio, questa è l’Ortigara!

Quando passo davanti al rifugio, in una piccola camera-ossario trovo resti di oggetti appartenuti a gente che qui è rimasta, forse senza una tomba; sono resti di ogni tipo, scarpe, scatolette, cinghie, schegge di bombe. Lascio la mia scheggia, non la porto con me, non la levo a questo monte: l’Ortigara mi ha dato qualcosa ed io non devo toglierle nulla. Metto lì quel pezzetto di piombo, in mezzo ad altri, anonimo fra anonimi, milite ignoto di piombo: in silenzio prego per LORO, mi sento sereno e torno alla mia auto, alla mia civiltà, ma so che LORO sono qui e che li posso tornare a trovare quando voglio.

Tornerò ragazzi!




Nessun commento: