martedì 9 settembre 2008

Il sergente Mario



Ero venuto per l’Altipiano, per andare a trascorrere giorni selvaggi, per stare con me stesso e con LORO, i soldati che qui son morti, perché sentivo il richiamo, per fare un cammino di ricordi, e sono andato dove viveva lui, il “sergente Mario”.

Ero in un negozio a comprare cartoline: la gente ci tiene ad avere pezzi di carta di dove tu sei stato, magari non li vedrà mai quei posti, ma se ci vai tu e gli mandi pezzi di carta ed immagini di cose che hai visto tu, per loro è come andarci. Gli basta poco alle persone. A me serve toccare, vivere, andare e vedere, non mi basta la foto o la cartolina.

Sto pagando e vedo il suo libro, ma forse era “un” suo libro, non uno importante, per la gente, era importante per me! lo vedo e lo chiedo al commesso. Cerca negli scaffali, ma non trova: è “quello” il mio. Non trova e deve prendere quello della vetrina: era l’ultimo e me lo dà.

Era un libro del “sergente Mario”, è morto quest’inverno, e mi ha lasciato parole scritte in questo libretto.

Parla dell’inverno, dei suoi inverni, dei suoi ricordi di una vita, e parla alla gente che ascolta. Devo dire “ha parlato”, perché ora ha finito di dire quel che doveva, ora sta a chi ha ascoltato far tesoro delle sue parole, dei suoi ricordi, dei pensieri.

Sono poche pagine, mi sembra di aver trovato un vecchio manoscritto prezioso. E’ il mio tesoro nello scrigno. Me lo prendo dalla busta del commesso, me lo tengo nella mano, come fosse una gemma.

E improvviso il desiderio di vedere i posti che mi ha mandato nelle foto. I posti che vedeva dalle finestre della sua casa, per capire, per “sentire”.

Chiedo dove abitasse. Non lo sa il commesso. Forse non vuol dirlo.

Era “il nome” di Asiago, era “lo scrittore” di qui, e forse lo protegge, protegge la sua memoria dai turisti-animali: come non capirlo, farei lo stesso anche io!

Chiedo all’Ente di Soggiorno ed una impiegata giovane, pochi anni più di mia figlia, mi dice che lo sa dove abitava, il sergente Mario, ma non me lo può dire. Me lo dice ridendo, come si dice ai turisti, gli dici “no” e sorridi, così loro, “gli animali”, non si accorgono che li tratti da deficienti; loro “sono” deficienti. Vogliono solo vedere e dire “ci sono stato!”.

Ma a me non importa, io voglio respirare l’aria, voglio sentire ciò che lui sentiva, non mi interessa dirlo agli altri.

Non lei, ma il suo capo, avrà la mia età, capisce, sente che non sono un animale, almeno, non un animale da branco, che sono un lupo solitario e che cerco l’altro lupo che era “il sergente Mario”.

Sa che non andrò a dar fastidio, non andrò a toccare con le mie mani sudice ciò che è sacro perché era vero e puro.

Mi spiega, mi fa capire e quando vede che lo capisco, uno sguardo d’intesa. Sa che non farò del male.

Lo ringrazio e vado.

Contrada Rigoni, fuori dal paese, fuori dal casino. Me l’aveva detto il “sergente” che viveva là, che vedeva i campi e mi aveva mandato foto.

Ci eravamo parlati, per telefono, per lettera.

Gli dissi che assomigliava a mio papà, a quell’uomo che doveva andare con loro, con gli alpini, per portare i camion, e che non andò con la “Torino” in Russia, e per questo forse, si salvò dalla steppa. Ma avevano lo stesso animo, lui, il “sergente Mario” e mio papà, avevano qualcosa in comune che trovavo nei libri di Mario e nei fogli scritti di mio papà, e per questo lo cercai e glielo dissi.

Gli dissi sciocchezze, ma a lui fecero piacere. E mi mandò foto, di quel che vedeva da casa sua. Di quel che era la sua vita di allora. Vita semplice, dove cercava la memoria del passato nelle cose vere del suo presente. Vita fatta di cose vere, di cose forse sciocche a chi oggi corre a cercare benessere nel vuoto, cose stupide fatte di passato, ma che nel suo presente erano ancora molto belle.

E questo mi portava a rivedere mio papà, a riascoltare i suoi discorsi.

Mai tristezza e malinconia. Mai rammarico del passato. Solo il suo valore, la sua eredità nell’oggi, il “non dimenticare”.

Glielo scrissi al “sergente Mario” e lui capì. Ci si capisce sempre quando si tira fuori il proprio animo e si sta a parlare con chi ha orecchio dell’animo pronte ad ascoltare.

Mi scrisse lettere e parole belle. Mi disse che gli avevo fatto piacere e mi mandò foto, mi regalò immagini. Non le avevo nemmeno immaginate quelle zone, quei campi, quell’aria. Dalla foto non avevo idea di cosa fosse. Ora dovevo sentire quell’aria. Non mi importava della sua casa. Vai nella casa di un morto per sublimare quel che non sai immaginare, io non ne avevo bisogno. Io volevo l’aria, quel che intorno casa sua si respirava. Perché forse significa vita anche per me.

L’ho trovata la zona dove stava “il sergente Mario”, l’ho vista ed ho visto i campi. Non c’era nessuno, non c’era clamore. E’ bello ascoltare da soli la voce di un luogo, la ascolti e la interpreti come vuoi, la fai tua.

Non c’era nessuno, era pomeriggio, la gente era al lavoro, forse.

Ho sentito quell’aria. L’ho respirata.

Poi la sera l’ho ritrovata nelle pagine del suo libro, del “mio” libro.

Sono andato via. Avevo trovato quel che cercavo, non lui, il “sergente Mario”, ma forse un pezzetto di me stesso che mancava nel mio animo. Forse una parte della mia anima che s’era spersa nelle montagne dell’Altipiano, o forse un pezzetto dell’anima del mio papà.

La sera, da solo, fra gli alberi, nel silenzio e nell’oscurità che scendeva pian piano, ho letto le parole, ed i racconti della vita del “sergente Mario” ed ho capito. Ora so di cosa parla, ora lo vedo dove stava, ora ho capito.

Nel silenzio ho ringraziato, ho salutato questo uomo che non ho mai incontrato di persona, ma che è come fosse il fratello di mio papà. Non so cosa ci lega, non ne ho idea, ma so che lui mi ha dato qualcosa, che io ho qualcosa in comune con lui. Forse le memorie, forse il desiderio e l’apprezzamento per certi posti, per cose semplici e vere. So che lui ha avuto un peso in me e che non è stato per caso che sono andato da lui, nei “suoi” luoghi.

Ora posso dire che ho fatto quel che dovevo, forse lo dovevo a mio papà, o forse a me stesso. Ma oggi so che qualcosa in me è venuto da quel pomeriggio e da quei luoghi.

Ciao “sergente Mario” riposa con i tuoi compagni della steppa, ora li hai raggiunti, ora siete di nuovo insieme, uniti, compagni veri, fratelli nella vita e nella morte. Ciao amico a cui non ho stretto mai la mano, so che ora tu sei nella mia vita, in qualche angolo. Forse con parole, forse con sentimenti, ma so che ci sei. Sei vicino a mio papà, forse.

Io sono qui, sul mio campo di battaglia, nella mia steppa, e da te ho imparato lo spirito con cui combattere la mia ritirata dal Don: senza odio, ma senza cedere al freddo ed alla fatica. Vivendo ogni istante, ma senza dimenticare i piccoli momenti e le piccole cose.

E ricordando ogni istante come esperienza e non come dolore.

Ciao amico mio!


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