Ci siamo incrociati ieri.
Lui
sulla mia strada, quella che avevo deciso, fuori dalla normalità,
fra aghi di pino e i tronchi così alti e silenziosi, ed io a turbare la sua tranquilla vita, posata nella terra appena smossa, eppure così
densa di qualcosa che neppure so dire cosa.
Ed
è stato amore a prima vista, innamoramento di quelli che ti
afferrano alle viscere e che ti fanno fare cose pazze. Non c'è
ragione, non esiste un motivo logico, e segui il cuore, evviva farlo,
alle volte siamo ancora animali vivi, e non cadaveri programmati che
marciano verso la fine!
L'ho
afferrato e sono tornato a casa, avevo trovato lui, e ne ero così
felice, così immotivatamente entusiasta che sono corso a casa a
metterlo là, sul tavolo, pronto ad essere, ripulito, forse
“valorizzato” dall'umano, forse modellato da questo animale che
sconvolge quello che incontra, oppure …. pronto al dialogo, a
parlare, a fare quello che finalmente te le dice chiare le cose,
perché l'altro ha deciso di aprire le orecchie. Finalmente!
Non
c'era motivo che prendessi dalla terra appena smossa dai lavori
finiti da qualche giorno, quel pezzo di legno, radice? Forse, non so,
tronco? Non so... ma legno, denso, vivo, vero, quello che
cercavo.
Ma
che cercavo poi?
Anni
che cerco, una radice di quelle come aveva mio zio, e che l'aveva
trovata alle porte di Roma, mentre scavava per mettere i pali del
telefono, e l'aveva presa con sé, pulita, lucidata, messa là a
farsi bella, a farsi ammirare da chiunque veniva a casa sua, di mio
zio. E l'avevo ammirata, avevo ammirato lui che aveva visto in lei
quello che mostrava, e lei così bella, così vera, così... unica.
Anni
fa. Una vita, anni luce, eppure... sono anni che ne cerco una come
lei. E ieri credevo di averla trovata.
Scrive
un filosofo indiano che leggo, che l'invidia, in mille forme, è
quello che ci spinge a farne tanti, di guai. E l'invidia verso la
radice di mio zio, mi ha portato a cercare, a cercare anche la
mia... perché io volevo la mia... piccolo misero umano,
che vuoi sempre possedere, arrogante che credi di rubare alla Natura
e fare tua una cosa che invece non è di nessuno, ed è di ognuno!
Ma
alle volte la miseria ci porta qualcosa, se alle volte apriamo le
orecchie. E forse io sto imparando a farlo, o forse per caso lo
faccio qualche volta... non so... ma stamane ho sentito. Stamane
volevo farla bella, quella che non era una radice, ma forse un pezzo
di ramo, o forse un ramo che stava diventando una radice... che ne
so...?
Lo
avevo ripulito già ieri sera, pulito della terra, dello sporco e
anche in parte della resina che copriva la sua bellezza. Lo avevo
portato alla luce, quel diamante che era nascosto sotto ed avevo
iniziato a capire che era diversa la cosa. Forse con lui avevo pulito
parte della mia arroganza ed avevo aperto le orecchie, forse anche il
cuore, chi può dirlo.
Ma
stamane, nel silenzio del primo mattino, ci siamo seduti in terrazza,
lui ed io, io con pezzetti di carta abrasiva, ma fine, delicata, come
quella delle limette delle unghie, fatta per arrotondare, per
lucidare e non per grattare, e lui, paziente, saggio, lui pieno di
quel che mi aveva da dire, venuto qui, da me, da mille secoli
lontano, forse da galassie o forse solo da un boschetto distante 500
m e farmi capire che se solo ascoltassi, le cose starebbero già là.
Ci
siamo seduti tranquilli: la domenica era iniziata nel solo del
mattino, ma nell'aria fresca, che preannuncia un cambio di
temperatura, come dice la sibilla, pardon, la TV, che
fa lo stesso!
Abbiamo
parlato, io mentre pulivo tutto: lo ripulivo, lo aiutavo a tornare
bello, com'era da giovane, com'era quando rimorchiava ed era
assai ambito dal codazzo che lo seguiva; e lui paziente, tranquillo e
saggio, sì, era saggio, lo sentivo dalle risposte che suggeriva, che
lasciava arrivare, senza arroganza, senza saccenza, come se le avessi
già scritte dentro me, come se non le stesse facendo capire lui
saggio, a me che ero testone, ma come se anche io potessi arrivarci
da solo.
Abbiamo
parlato di molte cose, ma soprattutto di me, del mio tempo passato,
di quelli che erano errori, o presunti tali, delle mie colpe e della
croce che mi porto dietro. Abbiamo parlato del cambiare di come
cambiare non significa diventare altri, ma come possa voler dire
diventare migliori, più belli, pur rimanendo se stessi. Come
cambiare e smussare non significa essere modellati, ma far vedere
quel che realmente si nasconde in noi. Come ripulire l'anima e il
corpo, o l'apparenza e il nascosto, sia solo un gesto, e un atto che
simbolizza, ma come sotto, noi siamo noi, e come il profumo, di noi
stessi, della resina che scorre in noi e che appare magica, quando la
tocchi, quel profumo, esca nella sua pienezza e riempia narici e
cuore, e ci renda belli, ma non alla vista, a qualcos'altro.
Siamo
stati vecchi amici davanti ad un bicchiere di vino, ci siamo guardati
negli occhi, confidati paure e fantasmi, ma ci siamo stretti la mano,
dati un contatto che tante volte non hai in anni di vita sotto lo
stesso tetto.
Il
tempo è volato.
Le
parole sono state tante, e con noi all'improvviso, mi sono accorto,
erano in tanti, al bar, commensali e altri che sedevano al bancone ed
alle volte annuivano con la testa, altre volte ascoltavano, o anche
che parlavano fra loro.
Ed
io ero fra loro, uno di loro, non ero più umano, non ero come
animale, ma come parte di quello che era uno, un solo uno
e che in silenzio, per chi passava, era solo una quadretto, forse
romantico, ma solo quello. Invece noi ci siamo scambiati vita, e
quando sono uscito dal locale, loro le altre, quelle verdi, quelle
late e quelle basse, quelle un po' secche e quelle appena spuntate,
mi hanno salutato, ci si vede stasera, all'ora di cena; lui, il mio
amico, mi ha sorriso, e mi ha lanciato con lo sguardo, una domanda
che era anche una idea su cui tornare, forse stanotte, quando sarò
solo sul serio: ascolta e lascia perdere il resto!
Ho
un amico, siamo vecchi amici ora, non so dove andrà, se deciderà di
stare con me per un po', di fermarsi a casa mia, o se deciderà di
andare altrove, ma sicuramente, questi bicchieri di vino e questo
nostro parlare ed ascoltare, nel cuore lasciano qualcosa, una scia,
un gesto, non so bene, ma ne sono sicuro, lo so.
Ora
che scrivo, mi volto, e lui , sorride, dal tavolino, silenzioso,
sornione, ed alzando il bicchiere di vino, il suo, brinda, alla
nostra salute!
Nessun commento:
Posta un commento