La montagna e non la
città!
Per me la montagna non è
stata e non è tanto e solo parete da scalare, o pendio da salire, o
massa che mi intimorisce ai cui piedi mi sento piccolo eppure parte
di lei. La montagna è un modo di sentire, di essere, di
percepire, è una selva di emozioni come un mazzo di fiori in cui c'è
di tutto.
La montagna con la
pioggia, forse la amo di più.
Ricordo di quando il
cielo era basso e grigio di nuvole cariche di acqua, Quando le
nuvole erano qualche centinaia di metri sopra me e carezzavano gli
abeti vicino casa, ed era difficile mettere anche il naso fuori,
perché pioveva, magari da mattina presto, quando invece del sole
dietro il crinale che ci sovrastava, trovavi già le gocce che
scendevano lente o intense, a seconda dei casi. La grondaia del
terrazzino che faceva da tettoia e sotto cui mi mettevo a cercare di
star fuori, all'aria, gocciava, portava acqua a terra, nella ghiaia
bianca. Faceva freddo, anche se era magari estate, eppure amavo quei
momenti, sentivo di stare bene, di essere là, in quel momento, una
parte di qualcosa di unico.
Ero ragazzo, direi
ragazzino, e non capivo bene, ora scrivendone, lo avverto chiaro.
“Il richiamo”
era quello ed io d'istinto lo ascoltavo e lo vivevo, ero solo immerso
in una rete ancora non visibile che man mano, negli anni si sarebbe
sempre più chiusa, fino a mettermi ben bene nel sacco.
Ero felice, stavo bene.
Mi rintanavo magari sotto
il piumino, o al tavolo a studiare o giocare a carte, al chiuso,
osservando di sottecchi fuori, le gocce, la pioggia, il bagnato in
terra, a sentire quei momenti, avvertirne l'odore e rubarne
l'aroma, come un orso ghiotto fa con il profumo del cestino della
merenda che intende andare ad esplorare...
Eppure ero felice anche
quando tornava il sole. Uscivo nel mattino freddo, perché era freddo
e lo sentivo sulle gambe, avevo spesso i pantaloni corti, anche a
vent'anni. La pelle d'oca e il freddo sul viso o sulle mani. Eppure i
raggi facevano capolino dietro allo spigolo nero che sovrastava la
valle dove vivevo quei momenti splendidi come mai. Uccellini piccoli
credo, a giudicare dal loro verso, iniziavano a cantare lodi o gioia
di vivere, un venticello freddo eppure dolce mi avvolgeva quando dal
caldo della casa uscivo su quella stessa ghiaia bianca che assorbiva
la pioggia e ne godevo il tutto che non so bene manco cosa fosse
veramente.
Freddo che sentivo forte
quando uscivo dal caldo del rifugio, più in alto, sotto le pareti,
ed ancora nell'ombra fredda della notte, pur se il cielo era azzurro
pel giorno che si stava alzando. Uscire era bello, anche stare là,
in silenzio, ché la maggior parte di noi era ancora assonnata, e i
pochi che preparavano gli zaini o le corde e i moschettoni, erano
silenziosi, forse avvertendo, incoscienti, che erano momenti sacri,
quelli.
Era tutto bello, era
magnifico, ora lo so!
Stavo bene!
Montagna e non città.
Dove venivo riassorbito, risucchiato da tutto. Una giostra, come l'ha
descritta Terzani, da cui scendere è diventato sempre più
difficile, finanche impossibile quasi.
Piovra che ti avvolge e
stringe fino alla gola per soffocarti ed impedirti di essere animale
in nome della civiltà o peggio, del progresso.
Eppure oggi non mi sento
progredito, se guardo indietro agli anni spesi. Avrei potuto
spenderli forse più ad osservare gocce cadere dalla grondaia o le
nuvole grigie nel cielo basso o a rabbrividire nel freddo del
mattino. Ma la vita non ha deciso così per me, ha lasciato che
arrivassi fino ad oggi. Ma oggi riaffiora il ricordo e la nostalgia.
Sono momenti condivisi con amici che ormai sono molto più assorbiti
di me, perché convinti che “così va la vita”.
Io no!
Nel ricordare, nello
stesso scrivere ora, ho un dolore sordo allo stomaco, dentro. Ho male
e allo stesso tempo sorge forte incomprimibile, la decisione,
irrinunciabile.
Ne approfitto, sto
segando la fune che mi tiene qui, e piano piano la lama, seppure
rovinata dal tempo, arrugginita forse, sta sfilacciandola, la fune, e
vedo i trefoli staccarsi, spezzarsi e dividersi e sento la tensione
che sta diminuendo, sento che sta per staccarsi tutto e farmi fare il
balzo; forse con lo strattone dello strappo cadrò e mi farò anche
graffi, ma staccherò la fune, la sto staccando e tornerò ad
assorbire quegli odori, di pino bagnato, di terra umida di pioggia o
di sole nel mattino, ad aprire i polmoni all'aria fresca e fredda, o
ad immergere il viso nell'acqua gelida della fontana. Non ci saranno
più materialmente quelle persone che un tempo c'erano. Ne avvertirò
la mancanza. Ma è una pagina nuova, non serve dolersi della vecchia,
non si gira indietro, non si può. Però tornerò là e ringrazierò
di questa fortuna: avere il desiderio di vivere.
Per me quella è la Vita:
“la montagna e non la città”!