domenica 18 settembre 2011

Buono, selvatico, sacro

Sto leggendo "La pratica del selvatico" di G. Snyder ed un pezzo particolare mi ha colpito.

….

Nella sterile bellezza dei prati innevati sulle montagne e sui ghiacciai nascono i piccoli corsi d'acqua che irrigano i campi del business agricolo della grande Central Valley in California. La salita del pellegrino della wilderness lungo un sentiero, passo su passo, respiro per per respiro, a questi campi innevati, portandosi tutto in spalla, è un insieme di gesti talmente antico da riportare in noi un profondo senso di gioia del corpo e della mente.

Naturalmente non vale solo per chi fa escursioni in montagna. Succede lo stesso a chi va in barca nell'oceano o risale fiordi e fiumi con il kayak, a chi cura l'orto, sbuccia l'aglio, oppure sta seduto in meditazione su un cuscino.

Il punto è avere un contato intimo con il mondo reale, il sé reale.

Sacro si riferisce a quanto ci aiuta (non solamente noi esseri umani) a uscire dai nostri piccoli “sé”, per entrare nel mandala dell'intero universo di montagne e fiumi.

Ispirazione, esaltazione e visione non si esauriscono appena si mette piede fuori dalla chiesa.

La wilderness come tempio non è che un inizio. Non bisogna crogiolarsi nella peculiarità dell'esperienza straordinaria, né sperare di abbandonare il pantano della politica per entrare in uno stato permanente di accensione visionaria.

Il miglior proposito di questi studi e di queste escursioni è saper tornare giù in pianura e vedere tutta la terra intorno a noi, quella agricola, suburbana, urbana, come parte dello stesso territorio, mai completamente distrutto, mai completamente innaturale. Si può restaurare, e gli uomini potrebbero vivere in gran numero su buona parte di questa terra. Il Grande Orso Bruno cammina insieme a noi, il Salmone risale la corrente con noi, mentre camminiamo per le vie di una città.

(G. Snyder “La pratica del selvatico” pagg. 111-112)



Credo sia da riflettere su quello che significano alle volte le nostre vacanze, non solo, fuga, evasione, come ci è stato "insegnato" a fare e come viene instillato nei nostri cervelli. Bensì vera ricerca, in se stessi, per ritrovare qualcosa di perso nei secoli, nello scorrere di questa civiltà in declino che ci ha allontanati dalle nostre radici vere.
Se ripenso alle mie vacanze di quest'anno, pochi giorni in Val Camonica, scopro, che senza volerlo, senza accorgermene, ho cercato questo: sono andato a piedi a cercare queste tracce, annusare, frugare, con lentezza e attenzione, alla ricerca di qualcosa che avevo perso, e... forse sto ritrovando...

L'istinto del selvatico sta riapparendo... per fortuna.





sabato 10 settembre 2011

Colazione e vita.



Vivo in una piccola cittadina del litorale romano, ma questa mattina non sono vicino al mare, bensì fra le colline che circondano una delle città più calde d’Italia, in una casa dove sono ospite.


Sono due giorni che ho iniziato a leggere il libro di Gary Snyder, “La pratica del selvatico”, e sto anche approfondendo alcuni scritti sull’ecologia profonda di Mario Spinetti e sulle modalità di vita di origine “nativa americana”.

Non credo affatto che sia stato un caso, bensì voglio credere una conseguenza di una sorta di ”risveglio” di qualche piccola, iniziale, parte della mia “selvaticità”, forse una conseguenza dell’avere ieri fatto il viaggio in treno cercando di osservare dal finestrino le varie colline o la piana, che via via scorrevano, con spirito diverso, considerandole o cercando di farlo, come se osservassi finalmente, qualcosa di vivente, di realmente vivo, come se avessi davanti allo sguardo non un mondo inanimato, bensì altro, una vita! Addirittura, mentre dietro al vetro del treno scorrevano immagini su immagini, mi accorgo di “stare chiedendo scusa” a Lei, per quelle cose che vi vedevo: strade asfaltate, campi incasellati e costretti tra confini, ferite che la nostra necessità di umana di organizzare la vita a nostra misura, tutto questo l’ho avvertito come qualcosa di cui entro me stesso, mi sono scusato benevolmente, senza sentirmi in colpa, ma pur volendoLe manifestare la mie scuse.

Dopo questo mio venire qui in questa maniera, stamane mi sono ritrovato a fare colazione diversamente dal modo in cui la faccio tutti i giorni, preso, entro me stesso, dalla fretta indotta da dove vivo e da come vivo …

E mi sono scoperto a fare diversamente: pane abbrustolito sul fuoco, marmellata di mirtilli spalmata sopra, e lento assaporare e lento gustare del momento in cui mangiavo, quel vivere il momento, quell’immergersi nell’atto, quel gesto zen che mi ha fatto vivere diversamente un qualcosa che superficialmente è normale: una semplice colazione.

Un attimo, un lampo, una intuizione, questo è vivere, questo è qualcosa che è in collegamento con l’essenza del vivere, con l’esistere.

Un attimo, come il lampeggiare del fulmine, come un battito di ciglia, ma questo è bastato, questo è stato necessario e sufficiente, e questo ho messo nel forziere della mia esistenza.

Alle volte la vita si scopre in modo semplice e lineare, senza le complicazioni che noi mentalmente ci cuciamo, e quando questo accade, intuiamo l’infinità di quello in cui siamo immersi.


‘L’ecosistema locale ci parla, se sai ascoltare, ma devi prima imparare ad ascoltare bene in un posto, poi puoi andare in altri posti e la Terra cointinuerà a parlarti; la Terra non ti parlerà mai veramente se non hai imparato ad ascoltare bene in un posto in particolare’ (Gary Snyder, citato in Earth Festival di Dolores LaChapelle).


domenica 4 settembre 2011

Attracco


Erano quasi le sette del mattino oggi, era umido come ieri o forse di più. Ero uscito per sfuggire al caldo e per cercare di assaggiare un po' di silenzio del nuovo giorno e della calma che viene regalata ad ogni sorgere di sole fra le barche addormentate, dove l'odore di salsedine fa da sfondo alla cartolina del porto che ogni mattina vede una edizione nuova da offrire a chi sa vederla e comprarla col proprio cuore.


I passi risuonavano tranquilli sui ciottoli e gustavo lo sciacquio degli scafi ed i richiami festosi dei gabbiani che giocavano a disegnare una tela di fili scombussolati, nell'azzurro ancora grigio della notte appena sfocata.

Stavo arrivando alla fine del molo principale, quello più lontano e scomodo, dove le voci della città sono solo ricordi che svolazzano confusi e dove anche il suono delle campane di S. Rocco arriva in ritardo.

Due alberi ondeggiavano ed una schiena rossa di sole era piegata a disegnare un qualcuno che stava rassettando il marrone di uno scafo del 1988.

Era vecchia la barca, forse, ma era lucida e bella, di quel legno marrone, come le baite fra i monti che amo più della mia vita, quel marrone che mi fa molto casa e che mi dà la sicurezza che dietro ad esso non mi può accadere nulla.

I capelli lunghi e scompigliati, il sudore scendeva fra di essi e colava sul rosso della pelle della schiena, le braccia muovevano lente e ritmiche uno straccio che lento anch'esso portava a brillare anche dove di brillante non c'era nulla.


La barca era una di quelle vere, era una autentica, l'ho capito anche io che di barche non mastico nulla, ma l'ho sentito, e ne sono stato sicuro, solo nel sentire quello quanto da quella scena mi arrivava dritto al cuore.

Mi sono fermato quasi, ho voluto assaggiare ogni millimetro del quadretto ed ogni singolo colore, e i passi sono diventati fermi, come i piedi e la mente, irretita da una tela che poteva essere stato dipinta decenni fa, prima che qui arrivassero gli “Alleati”.


Ha avvertito i miei occhi e si è voltato.

Azzurro! Se l'era portato appresso dal mare che ieri aveva traversato, e l'aveva appoggiato nel suo sorriso.

Il vento era rimasto fra il grigio dei capelli e quello della barba e volteggiava tranquillo come lo sguardo che mi regalava.

Il sorriso era aperto, come quello di chi incontro in montagna. Monti e mare: la natura, quella non addomesticata, quella reale, quella di cui l'uomo è solo parte e non nemico o avversario, la natura ti riporta ad essere vero, e lo vedi negli occhi, lo senti dentro quanto ci si incrocia.

Lui è così: vero!

E ci sorridiamo e ci salutiamo. Si ferma nel suo riordinare la sua casa mobile, e mi chiede di salire. Io che ho sempre ammirato queste barche di legno, che le ho sempre viste come fossero dei camper del mare, con cui tracciare linee nuove ogni volta e che ti donano libertà reale, di non ripercorrere una strada già fatta, io ora salgo e gusto ogni momento che vivo qui sulla “Marina Mia 1988”.


E' un attimo e sul tavolo, a poppa, compare una coppia di tazze e beviamo e stiamo a parlare come fossero secoli che non ci si incontrava dopo avere fatto tante volte il giro mondo, ognuno su una sua linea personale. Abbiamo quasi gli stessi anni, lui qualcuno di più, è come se avessimo lo stesso DNA e come se dividessimo il pane da sempre. Le parole scorrono lisce, le risate e l'intesa viaggiano da un lato all'altro del tavolo come magia sciamanica, ed io mi trovo a specchiarmi nel suo azzurro mentre lui si rivede nel mio sognare libertà e fare progetti di vita in fuga dal mondo.

Escono foto, cartoline e libri: i libri sono il cibo che a me piace e che mi fa intendere i gusti altrui, e ne troviamo comuni: London, Rigoni, Slocum, Larsson, Vinci. L'aria si fa unica, si fa speciale, ho incontrato un fratello, lui anche lo sa.


Si parla e si beve, e la giornata entra diversa nei nostri cuori, e noi l'abbracciamo, l'accogliamo e la beviamo in modo nuovo, imprevisto eppure entusiasmante.


Mi racconta di sé, gli dico cose che pochi, di me sanno, e mi domando poi perché, mentre parlo, ma è un fratello, al fratello non nascondi nulla, anzi, apri il cuore, dopo anni di lontananza.

“Marina Mia” è la “sua” ed è andata via secoli fa, volata nel mare che lei amava come lui, innamorata del mare perché lui ne era innamorato, sorella del mare, perché lui glielo aveva messo nella culla.

Marina è altrove, fra i “quaranta ruggenti” ed il ghiaccio del Nord, fra le trombe di vento dei Caraibi e le nebbie delle Orcadi, fra la rotta dell'Olandese volante e quella dove Moby Dick fugge alla morte.

Marina corre nel vento e mette le vele sempre al meglio, corre col suo veliero e fa gare che nessuno osa, è pazza e vince sempre. Marina non la batte nessuno, nessuno riesce a tenerne il ritmo.


Mario a Marina la ama e la serba nel cuore e la segue, sente in radio dove sta e cerca di incontrarla nel porto di approdo, o sente la posizione e prova ad incrociarla, ma lei è troppo veloce, lei non si ferma mai.

Ed allora Marina è stata legata là, alla sua poppa, con parole di argento, che lui lucida ogni mattina e tiene sempre pronte, quando lei tornerà a bordo a visitare questo veliero che le deve una bottiglia di champagne.


Ci stringiamo la mano, i nostri occhi si abbracciano, l'azzurro vede il mio marrone e ci si intende e ognuno volta la schiena al fratello, sicuro che non ne verrà alcuna sorpresa.


Torno in città, lo straccio riprende a strofinare sul legno, le campane di S. Rocco segnano la messa, le pecorelle in fila entrano nel loro ovile, assetate di salvezza, e Mario continua la sequenza del suo rosario, in silenzio, masticando la speranza che Marina appaia all'imbocco del porto.


Ormai il sole sta inondando la cittadina e l'umido ha ripreso il suo posto sulla nostra pelle, il chiasso della vita “normale” si è riappropriato delle anime di noi tutti. Laggiù alla punta del molo, uno straccio lucida il legno chiaro, un gabbiano urla e si posa sull'acqua vicino a poche lettere d'argento, un'onda lunga venuta da un gommone accarezza il legno di una barca.

Chiudo il pennello nella scatola e metto la tela nella cartellina, i colori sono a posto. Mi abbasso all'acqua della fontanella, chiudo gli occhi, butto il viso sotto il getto, bevo mentre mi inondo di fresco e rivedo l'azzurro del cielo negli occhi di mio fratello.



Berto fra le rocce rosse


Ero salito sotto il sole, ma l'altitudine ed il vento fresco che spira a quella quota, mi avevano risparmiato il calore nel corpo ed, anzi, arrivato, avevo avuto quasi il bisogno di coprirmi. Lo faccio spesso quando mi fermo, sono sudato, il sudore si trasforma subito in gelo sulla schiena e mi copro: l'ho imparato dai primi anni in montagna, quando mio padre mi diceva di farlo e non capivo.

Mi ero messo da una parte a mangiare, schiena attaccata un masso, pochi biscotti e acqua; porto poco appresso, quello che porti pesa e allora metto poca roba nello zaino, mangio quello che serve, niente di più, meglio una bella birra al ritorno a valle.


Pochi stavano là, al Passo dei Contrabbandieri, sono circa mille metri sopra al Tonale. Non sono tanti quelli che scelgono la fatica senza un ristornate dove andare poi a sentirsi bravi. Su molti sentieri, il turista fatica, sbuffa, suda, arriva magari senza fiato, poi con le gambe sotto al tavolo, riprende vita e si riempie di cibo, sentendosi in diritto, vista l'impresa compiuta.

Là non c'è ristorante, solo quello che ognuno si è portato nello zaino, e la gente, allora, è veramente poca: quello che piace a me.

Nessun chiasso, solo il vento e il sole e qualche corvo, e.. qualche chiacchiera, ma benvenuta.


Sento una voce con un accento emiliano, almeno questo credo io, che vengo dal sud, e sento una frase che mi colpisce: “Penso di avere il diritto di tirare un po' i remi in barca, ora a 80 anni!”

Cerco con gli occhi chi sia a dirlo. Vedo un torace esposto al sole anche se già bello marrone, quasi fossimo a Riccione e vedo una massa di bianco sulla testa. Lo invidio dentro me, non lo dico, sono là da solo e lo penso parlando col mio “me stesso” nascosto.

Sento che ancora parla e mi godo la musicalità del suo accento.


Quando riprendo a salire verso altra cima, gli passo accanto e gli faccio i complimenti, io che non attacco discorso quasi mai! “Ho sentito la sua età! Le faccio le congratulazioni...” Lui mi regala un sorriso inaspettato, come inaspettato è stato il mio dono a lui.

Sta intrecciando dei piccoli steli verdi, con fiorellini. Mi ferma un momento, stavo proseguendo e parliamo. Poche parole. Improvvisamente sento questo Uomo vicino, amico, sento che qualcosa di diverso ci unisce, quassù a 2800 metri.

Poi mi regala quel che sta facendo: “Lo prenda” mi dice. E mi porge una specie di coroncina di erbe con fiorellini gialli e celesti, una specie di corona di alloro in miniatura. “la porti alla Sua bella!” aggiunge, io arrossisco imbarazzato.

Lo ringrazio, mi sorprende.

“Me lo insegnò mio nonno, combattè qui per due anni”. Faccio due conti, il nonno avrà avuto forse vent'anni o poco più allora, nel 15-18.

“Era un alpino, combatteva con il Battaglione skiatori eppure intrecciava fiorellini per la sua amata! Mia nonna!” aggiunge e vedo come sorride e ricorda.

Immagino quell'uomo rude che stava là a salvare la pelle ogni giorno e che intrecciava piccoli steli verdi per colei che lo attendeva chi sa dove, lontana ed in pena d'amore.


Quei fili verdi erano il loro telefono, il legame che lui intrecciava ogni giorno, forse di notte, nei turni di guardia e che nel tempo diventava sempre più forte.

“Pensi non mi ha raccontato molto della Guerra, ma mi ha insegnato questo, che ogni volta che sei solo, se pensi a chi ami, ti senti meno solo e se fai qualcosa per scrivere il tuo amore, ti senti meglio. E lui faceva queste piccole coroncine e le mandava a casa alla nonna, con le sue lettere, lui che non sapeva scrivere bene.

Io ho fatto lo stesso per anni nei miei giri. Oggi li faccio ancora ma non ho più a chi darli. La mia amata non c'è a riceverli, quando li intreccio li regalo tutti.”

Apre la mano con la coroncina bella e delicata, il palmo aperto, le righe nella pelle indurita, eppure aperta a donare!

E' segnata dal sole la sua pelle, gli occhiali scuri nascondono gli occhi, ma giurerei che qualcosa scorre dalle palpebre che si riparano dal sole, forse un po' di umido...

I miei non nascondono nulla, si bagnano di emozione e le lacrime scendono, un nodo mi afferra alla gola e non so dire altro che “Grazie!

Il resto lo dice il cuore e sono sicuro che lui lo sente, e capisce.

Ci stringiamo la mano, una mano che è forte e che trasmette tanto ancora, la sua, la sento ancora adesso che mi ha lasciato la fiducia e anche qualcosa d'altro.


Riparto, cammino lento, ingoio e deglutisco e mi riprendo solo dopo un po'. Gli steli verdi ed i fiorellini sono custoditi nel libro che porto con me dove scrivo quello che mi viene nel mio girare da momenti come questo.


Stanno qui ora, accanto al pc mentre scrivo, li ho messi dentro una quadretto, ci ho fatto una cornice di corteccia, in onore a Berto, quel signore che me li ha donati e che ripete gesti ereditati da un nonno alpino che fra quei sassi rossicci è sopravvissuto per due anni.


I vecchi non ci donano solo ricordi e malinconia alle volte, certi di loro ci danno cose che non hanno valore apparente, eppure riempiono il cuore di bene, e queste tradizioni che nessun libro riporta, perché non sono ufficiali, sono quelle che ce li fanno ricordare per sempre.

I fiori sono secchi ora, ma il loro colore è ancora lo stesso. Il mio ricordo è vivo e l'umido che ho intuito sulle gote di Berto è quello che me lo fa vedere anche ora, come fosse qui. Ci si vede pochi minuti, in un posto sperduto, ci si trova dopo anni di vagare e ci si scambiano poche parole, eppure quelle molliche di tempo formano cibo per l'anima che ci nutre molto più di tanti pranzi.


E la moglie di Berto sicuramente, da dove poteva osservare il marito suo amato, lo avrà amato ancor più, orgogliosa di quell'uomo indurito dal sole che ancora, dopo tanti anni, intreccia fiori per lei e li semina per il mondo.



sabato 20 agosto 2011

Vai Pirata !… NO, meglio: Vai Marco !


Sul tornante mentre ero attento a guidare (lo strapiombo di sotto mi convinceva a farlo con una certa attenzione!), gli occhi hanno visto sfuggire, rapida, una frase scritta sui sassi che fanno da massicciata: “Vai Pirata!”, poi è arrivato rapido il rettilineo che segue ogni tornante e la mente si è concentrata sulla guida, ma la memoria l’ha fissata quella curva ed anche quelle parole.

La strada del Passo Gavia alle 9 di ieri non era trafficata, per fortuna!.. chi ha salito il Gavia, che sia in auto, che sia in bici, sa bene che in certi tratti è preferibile non incrociarsi con qualcuno che va in senso opposto, e si spera che sia così ogni volta. Ma la memoria riandava a quelle tappe del Giro, che allora seguivo in tv, perché erano quelle dove c’erano le salite e si vedevano luoghi che mi ricordavano posti che appartengono alla mia adolescenza ed anche al dopo, e che facevano stare anche me, là, su quei pendii erbosi, a seguire i ciclisti che salivano con fatica, in mezzo a panorami che solo chi li ama sa che cosa siano per chi li possa osservare.

Poi una volta, quasi improvvisa, senza preavvisi, una tappa che seguiva i corridori su un passo mai sentito, allora: il Mortirolo.

Credo che fosse Indurain il forte, l’asso del momento; un giovane, non affatto famoso, almeno per me che il ciclismo lo seguo pressoché per niente, fece una cosa incredibile, salì quella strada, che portava al passo, con pendenze che alla tv non rendevano l’idea, ma che ieri salendo in auto, ripassando su quei tornanti che già avevo percorso 5 anni fa, e scalando le marce, vedevo in tutta la loro difficoltà, per le gambe e la testa di un essere umano in bici; questo ciclista che si chiamava Marco Pantani, diede un distacco notevole su quei pochi chilometri, all’asso del momento e divenne qualcuno che in molti amarono e credo anche oggi amino ancora.

Non ho amato il sopranome “il Pirata”, non so perché, forse perché l’ho iniziato a sentire di più quando Marco era già diventato lui l’asso, per me è ed è sempre stato Marco Pantani.

Su una curva del Mortirolo c’è uno striscione, un po’ rovinato, ma che voglio credere sia stato messo da qualcuno che Marco lo ha amato veramente, anche questo l’ho visto di sfuggita, (accidenti a quando devo guidare!), più o meno dice: “Marco ti abbiamo lasciato morire abbandonato e solo…” e poi l’ho perso.

Non credo che l’uomo sia stato abbandonato, ma certo è stato macinato e poi stritolato, in un meccanismo che oggi fa di ogni cosa bella che appare nello sport, qualcosa su cui ci si deve guadagnare; sta alla persona non farsi coinvolgere e credo sia difficile.

Però ripenso a quelle prime volte in cui ancora Pantani non era un asso nel vero senso della parola, era la speranza di vittoria contro i forti del momento, era quello spirito a cui l’uomo qualunque italiano si attacca per avare il suo momento di gloria, tramite l’azione dell’altro: era l’Italia che batte la Germania 4-3 oppure che nel ’82 vince i mondiali e fa saltare sulla sedia anche il vecchietto Pertini, era il Fiasconaro che fece sognare di avere trovato un quattrocentista di valore internazionale, era il Panatta che infilò Internazionali di Roma e Roland Garros ma senza mai farci sentire, a noi che seguivamo in tv, sicuri dell’esito, sempre in forse, sempre in ansia…fino alla vittoria finale.

Oggi non è più così, oggi hai l’asso, anche in Italia, la Pellegrini che vince sicura e che quando non è più tale molla tutto, per i soldi di altri lidi, è la squadra che vince lo scudetto imbottita di stranieri, eppure è un club italiano.

Quel Pantani era italiano, era qualcuno che diede emozioni e che credo, non sia inquinato, nel ricordo, almeno non nel mio, dall’altro, dal Pirata che si lasciò stritolare e schiacciare dopo, da ben altre cose.

Oggi ripercorrere i 32 tornanti del Mortirolo mi ha riportato ad allora e mi ha ridato quei momenti di emozione e non con malinconia, ma con gioia, perché sono stato fortunato, li ho vissuti. Oggi il Giro non lo seguo più, dopo di allora, le cose sono diverse, almeno per me, ma osservare di sfuggita, su quel muretto della strada del Gavia, l’incitamento a lui, Marco, ha donato qualcosa di più al panorama impressionante, verso la valle, che alla mia sinistra si sfilava via via che salivo, faticando, seppure con un motore sotto al sedere verso i 2600 metri del valico.

Sono così le cose belle, le rivedi, le rivivi, le riassaggi e anche a distanza ne risenti il sapore, l’aroma, come quelle musiche che anche dopo venti o trent’anni ti emozionano o addirittura ti fanno spuntare le lacrime.

La fortuna è averle potute assaporare anche in passato e goderne oggi nella memoria, senza malinconia, ma con la stessa piacevole emozione.

E’ bastato gettare lo sguardo su una scritta ad un tornante per darmi questa.

Chi sa quali altre mi riserva il futuro…


sabato 6 agosto 2011



E' una estate tranquilla, fino ad oggi non si smania di notte, anzi, ci si copre, e questo mi fa amarla, quest'estate, mi fa apprezzare anche il caldo, io che del freddo mi nutro, e che dal caldo mi faccio riportare ad atmosfere di confusione e cattive sensazioni.

Mi sono alzato, ripreso dal rilascio completo di me stesso nella notte, sono venuto a farmi la tazza di caffé con cui gusto il tornare a me stesso. Non ho buttato subito lo sguardo fuori dalla finestra, anche se il terrazzo è aperto, se nulla poteva impedirlo. Avevo ancora nella testa il mio stare fra le lenzuola, lasciando che la mente vagasse nel blu, fra sprazzi di nuvole, per poi gettarsi in picchiata su colline o montagne e rasentasse l' acqua dell'oceano assaporando il vento della velocità con ci volava intorno.


La gatta miagola reclamando il suo diritto, il suo volere attenzione e amore e cibo; si strofina e parla, mi guarda e le getto una carezza, la afferro e la porto a me, al cuore, per farle sentire che batte anche per lei: siamo uniti ormai, oltre un anno di vita sotto le stesse giornate.

L'occhio avverte il grigio, avverte meno luce del solito. E' estate, il sole sorge presto, sono abituato a trovarlo già all'opera quando mi alzo io: avvolgere le cose, delicato e silenzioso, carezzare le anime mentre ancora cercano la dimensione del giorno che le invade.

Oggi non lo sento smazzettare in giro e volgo gli occhi al cielo: è grigio.

Non piove, non è autunno, è estate, eppure c'è meno luce: c'è la nebbia!


Gioisco dentro me, quella parte malinconica e triste che ama il silenzio e la quiete e che ascolta il respiro di ciò che vive, gioisce e si gode questa scoperta.

Il bambino che scarta i regali di Natale, così per una frazione di tempo mi sento io.

La osservo, la carezzo io ora, la assaggio, la nebbia.

E' nebbia d'estate, non porta pioggia, non è quella che “...piovigginando sale” e spinge a chiudersi in casa per ripararsi dal freddo, ma è pur sempre nebbia, è tranquillo silenzio, per me.


Quando cambi le lenzuola sul letto, ne metti di pulite e profumate (il profumo di pulito è una cosa che ci fa impazzire a noi moderni, senza di lui, pare non ci sia pulito vero...), vedi le lenzuola abbracciare il materasso, coprire eppure carezzare, vedi coprire con dolcezza e già pregusti anche il tuo goderne. Così questa nebbia che carezza la mia anima come la casa di fronte, l'auto solitaria che scorre nella strada poco lontana come il gatto che nel cortile sta sonnecchiando ed aspetta la sua realtà: il mangiare dalla padrona, dopo la notte.


I rumori affondano nella nebbia, lei li assorbe e li restituisce cambiati, addolciti, anche smussati, come quelle immagini dove tutto è diverso e gli spigoli non esistono e ogni cosa si fonde all'altra pur rimamendo immagine ben chiara. Così la nebba mi rende questo regalo d'estate e me ne rallegro dentro.


Più tardi il sole verrà a spazzare questo sporco che inquina l'estate dei villeggianti di città, verrà a rimettere le cose a posto, come il ristoratore che rassettta la tavola, leva le molliche e toglie lo sporco, quando ti siedi per fare il tuo pasto e lui prepara la tua tavola.


Ma sarà dopo, sarà fra un'ora, forse due, forse oggi non verrà per niente, farà riposo, chi lo può dire.

Intanto assaporo questa, ascolto questo silenzio, lentamente e gradualmente infranto dai rumori della cittadina che torna in sé nel nuovo giorno che viene messo in campo.

Io gusto di questo e metto nello scrigino del cuore. Regali la natura me ne fa, sono preziosi e valgono vite intere passate a correre, me ne rendo conto sempre più e quindi metto da parte l'emozione, accarezzo il cuore che si scalda di questo, e continuo a impilare giorni, masticandoli più lentamente e scoprendone il sapore in ogni angolo, scoprendo che ogni cosa, di sapori, ne ha mille, nascosti, mai notati, e che oggi io ne riconosco alcuni di più che un tempo.


La malinconia non mi rattrista dentro, ma mi rallenta, mi placa i pensieri e me la sento amica. La nebbia copre anch'essa, e mi restituisce l'immagine del mondo addolcita di sé.


Ogni cosa ha mille volti, possiamo vivere mille anni e sempre ne troviamo di nuovi.

Spero di avere sempre spazio nella libreria del mio cuore, non ne voglio perdere uno, valgono tutti.


mercoledì 27 luglio 2011

Vita semplice e downshifting



La Vita è già complessa da sola e non semplice da affrontare: ognuno di noi si barcamena nel quotidiano con costi in aumento, rate, tasse, ecc. ecc. e ci spingono lentamente e gradualmente a spendere sempre di più, a vivere e lavorare per spendere e pagare i debiti. La pubblicità ed il tartassamento cui siamo sottoposti ogni giorno, ci invischia in una rete di "obblighi" non scritti, ma molto potenti e resistenti che ci affondano giorno dopo giorno in un pozzo nero, di cui non vediamo il termine.

La cosa difficile sta nell'acquisire consapevolezza e coscienza di questo meccanismo e di trovare la forza per spezzare questo vortice ed iniziare ad uscire per liberarsi.


Liberarsi e vivere liberi.


Questo dovrebbe essere il nostro modo di vivere: siamo Persone, siamo nati liberi, abbiamo diritto a vivere una Vita degna, una vita che sia degna di questo nome.

Il meccanismo con cui siamo stati schiavizzati è questo e per liberarsi dobbiamo cambiare abitudini.

E' normale che non sia questa la soluzione per la maggioranza delle persone, ed è anche naturale sia la mia soluzione, infatti è quello che intendo io per cambare vita, la mia vita!

Simone Perotti ha descritto come lui ha cambiato, ha anche motivato ed argomentato le sue scelte, ed il mio downshifting comporta anche questa inversione di rotta: cambiare letteralmente modo di vivere, il modo di spendere il mio denaro, di valutare le spese da sostenere, le scelte da fare, l'importanza di avere o non avere certe cose; veramente esaminare con attenzione, non quella dell'avaro, ma di chi intende fare lui, con la propria testa, con la propria volontà, le scelte e condurre con le proprie mani, la Vita, avendone il timone, e navigando fra tempeste, fortunali, sole e bel tempo, verso orizzonti infiniti, dove sentiamo di esistere, avvertiamo l'odore del mare, il profumo della libertà.


Ero a cena con persone conosciute alcune da tempo ed altre da poco, trascorrendo una serata piacevole, se vista con l'occhio del normale vivere.

Un campanello di allarme si è attivato quando i discorsi, come spesso accade, sono scivolati verso i soliti lamenti per i pochi soldi non tanto per vivere dignitosamente, quanto per andarsi a godere vacanze anche soltanto scappa e fuggi, ovvero per poter andare a cena nei ristoranti dove la massa si accalca per dimenticare la vita di m... di ogni giorno, insomma soldi per scappare dall'affrontare la realtà della schiavitù di ogni giorno.

All'improvviso un senso di rigetto e di rifiuto, di improvviso desiderio di urlare "BASTA!", a tutto questo, a questo soffrire creato da noi stessi, con desideri che di fatto servono solo ad ingrassare tasche altrui e non ci danno né serenità, né tantomeno, la felicità.

Ma sono rimasto in silenzio: inutile ed a parere mio sbagliato, voler insegnare ad altri cose non spetta a me insegnare, non sono un "Maestro" e non sono io che so cosa è giusto o sbagliato per gli altri, il mio rispetto mi evita di voler spingere altri a fare ciò che è giusto per la mia ottica, per il mio modo di vedere; ma posso agire su me stesso, e quel momento mi ha sbattuto violentemente sulla faccia l'urgenza di agire, di prendere la ruota e girare di 180 gradi, invertire la rotta lasciando alla memoria le immagini delle sirene che agitano telefoni della millesima generazione, computer dalle prestazioni magiche, o altri mille oggetti inutili di cui non ho bisogno, per stare bene, dentro.

Ogni momento è buono per prendere il timone, ogni momento è utile per scegliere e cambiare, e soprattutto per lasciare alle spalle quello che non voglio.

Ogni momento va bene, purché sia il mio momento, quello che io decido, in cui la mia Persona afferma la sua dignità e la sua libertà.


Un passo avanti, downshifting avanti tutta, anche controvento!




Vita semplice, cose semplici





sabato 28 maggio 2011

Canto nel mattino




Quando pochi raggi di luce filtrano nell'aria, quando anche con le nuvole grigie sulla nostra testa, e quindi il sole non intende alzarsi dal suo sonno, appena poca luce riesce ad emergere, lui, quel piccolo uccello che abita sull'acero di fronte alla mia finestra, si sveglia ed inizia il suo canto. Verso di vita per lui, canto per me, umano che non ho tale dote.

Sono le 5 del mattino, poi le 5 e mezza, poi le 6, e poi ancora trascorre il tempo, e lui imperterrito, con costanza che umano non avrebbe, canta ripetutamente e ripete il verso che sa fare, il suo inno alla sua vita, forse incosciente, senza nemmeno porsi la questione di cosa stia facendo.

Siamo noi umani, cosiddetta specie evoluta, che ci poniamo simili quesiti, lui piccolo uccello di normali colori e che vive in una normale cittadina del litorale romano, si accontenta di essere vivo e di gridarlo al mondo, a suo modo. E lo fa ripetutamente, come una macchina che martella, come il trapano pneumatico che fra poco inizierà a bucare per permettere alla fibra ottica di essere posata ed evolvere la nostra vita umana, portando internet dovunque, nelle nostre case.

Lui l'uccello, non so nemmeno di quale specie sia, se passero, se colibrì, se uccello esotico emigrato qui da cieli blu dell'Africa o nato da mamma indigena in quest'albero, lui vive senza internet, canta, fa la sua normale piccola e sconosciuta vita, e la trascorre, tranquillo.

Eppure ogni mattina ripete quel verso, mille e mille volte, ed ora anche che ne sto scrivendo, ripete con la regolarità di una macchina, ogni gionro che la sua vita si svolge.


Ricordo un giorno, anni fa, alle pendici di una montagna delle infinite che ho visto ed ammirato in silenzio, grato. Ricordo l'acqua di fusione del ghicciaio: sgorgava da un buco grigio della ghiaia della morena di fronte a cui mi ero seduto, e lo faceva con forza, e lo faceva di continuo, grande getto di grigio freddo eppure affascinante.

Stetti là molto tempo, ad osservare, forse, sotto sotto, aspettando che il flusso diminuisse, come quando sbuchi gli scarichi dei terrazzini di città, dove si è accumulata l'acqua della pioggia, e tu sturi lo scarico, levi le foglie secche che lo hanno intasato, e l'acqua sgorga, con forza, per poi, lentamente, spegnersi e diventare goccia che va a morire.

Quel ghiacciaio no, non faceva spegnere niente. E mi scopersi a pensare meravigliato ed attonito a quanta acqua, ogni giorno, senza posa, usciva da quel buco, e di quanta forza ci fosse in quel punto ed in quella immagine.

Noi umani spesso ci meravigliamo di tante cose che per la Natura sono del tutto normali, come il bambino estasiato di fronte alla barba portata via dalla lametta del rasoio del papà: a lui sembra magia, mentre il papà ha perso quella meraviglia di fanciullino innocente.

Noi umani di fronte alla Natura siamo così, e questo alle volte ci riempie di semplice e bella meraviglia, per fortuna ancora.

Ricordo mi colpì l'idea che io sarei andato via, e la notte, nel buio, senza dover vedere per cercare la strada, quell'acqua, sarebbe continuata a sgorgare, e così il giorno dopo, e così da chissà quanto tempo e per quanto ancora.


L'uccello continua a strillare il suo verso. Non è un cinguettio semplice, è un canto complesso ed articolato. Non so cosa significhi, ma lui lo ripete, infinite volte.


Noi umani abbiamo inventato un simbolo, un otto coricato, per dire infinito, per simboleggiare un qualcosa che si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi, e noi neppure vediamo, o scorgiamo ma lasciamo avvenire senza degnare di un occhio diverso. Noi umani ci arrabbattiamo nelle piccole lotte penose se viste da fuori o nell'osservare gente che reputiamo famosa, fare cose insulse, e stiamo là, allocchi a bocca aperta, ad ammirare, estasiati, e ce ne beiamo, perché quello asssorbe la nostra mente, l'animo, le emozioni.


Quell'uccello, nella normalità del verde di un acero, da anni e per anni, o forse no, continua una meraviglia a cui nessuno dà attenzione.

Le nuvole ogni mattina scorrono nel cielo, sempre diverse, eppure sempre le stesse, sempre vapore di acqua e sempre dal basso provengono e per secoli lo hanno fatto e se umano non altererà eccessivamente la loro vita, per secoli ancora lo faranno.

Un disco rosso ed uno bianco, ad ogni giro di boa, si alternano nel cielo, facendo a gara e rincorrendosi. Fratello e sorella per Franceso, che li aveva notati e ne era rimasto, lui sì, abbagliato e ammirato e ripieno di gratitudine, per quell'infinito corrersi dietro che si svolgeva dall'infinito passato e di cui ci eravamo dimenticati. Fratello e sorella giocano ogni giorno ed ogni notte, senza gridare il loro gioco, eppure donandocene la grazia e il pregio, eppure noi andiamo e passiamo oltre..non ti curare di loro disse il Poeta, ma in questo caso non sarebbe il caso. Sarebbe forse di curarsene e fermarsi un attimo.


Passa la vita, trascorre, e la impieghiamo a costruire castelli di nulla, che poi distruggiamo perché ce ne stanchiamo. Castelli d'oro abbiamo sotto gli occhi, trame d'argento e diamanti preziosi. Sono solo mischiati nel normale, come i disegni della Settimana Enigmistica: si devono annerire gli spazi con i puntini neri e l'immagine compare, ed allora, come bambini, restiamo là a bocca aperta per la scoperta fatta.

Allora taciamo e ammiriamo.


Sull'acero il piccolo uccello fa una pausa, forse è stanco, forse si è annoiato di ripetere la stessa cosa, si è alienato direbbe qualche filosofo politico.

Scrivo un altra riga, ma lui riprende, non sa cos'è la politica, per fortuna sua, né la filosofia, e riprende il suo verso, sorrido fra me, guardo nel verde, rami folti, verde intenso, il cielo è grigio dietro al verde, oggi credo pioverà.

Mando un saluto al mio amico.

Ma lui non lo sa, che cos'è un amico, vive, questo gli basta.


martedì 24 maggio 2011

In riva al mare...


La domenica è giorno di corsa.

Si viene da una settimana di frustrazione o di stress e ci si sfoga, correndo nei modi più goffi e strani ,e così questa popolazione di zombie che resuscitano un giorno ogni sette, la vedi spandersi un po' dovunque, almeno qui, dove vivo. Tra case e vie che sanno di sale e vento.

Lascio segni non profondi, ho anche io le scarpe da running, ma cammino, non mi va di correre. Mi piace assaporare i passi, anche io ho corso, anche io sono parte di questi dannati.

Le orme rimangono poco sulla sabbia. Sul bagnasciuga l'acqua ogni tanto passa e fa il reset e tutto torna liscio, come nuovo. Segni di zampe, di unghie che mordono il terreno, continuano verso l'interno della spiaggia. Ne sento il verso. Un gruppo di gabbiani sta becchettando qualcosa che ha trovato, operatori ecologici del litorale. Un altro di loro, forse è Jonathan, chi sa, si bea nel suo galleggiare lento, cullato dalla marea e dalle onde tranquille, senza curarsi di trovare il mangiare per oggi, non ora.


Sento un urletto, uniccolo biondino alto meno di un metro chiama la mamma. Sono soli, tra la sabbia non pulita, ancora qui non è zona di stabilimento, ancora c'è libertà, e.. sporco. La mamma carezza con lo sguardo il piccolo e lui biondo oro, le tende la manina, e tutti e due, senza scarpe si incamminano lasciando segni diversi, piccoli e grandi, dove senti l' unione dei loro cuori.


L'acqua fa un'ansa e le onde stranamente, qui, fanno rumore, non ne so il perché. Nel mio andare lento, non di corsa, posso ascoltare, fermarmi, senza temere di perdere tempo.

In terra tante conchiglie, un tempo le raccoglievo, oggi le ammiro, le lascio là, al mare, a chi vorrà farle sue, oggi mi godo il solo vederle.

Ero piccolo anche io, con la mia di mamma, non ero biondo, ma anche io tenevo una mano, ed anche io volevo quella sicurezza, oggi non posso averla, oggi non mi è permesso, sono cresciuto, fine del gioco.


Lentamente lascio il molo tondo dei pescatori, dove il mio amico va a leggere romanzi gialli, e vado verso quello che resta di un bagliore turistico. Rimane del blu sulle pareti, scrostato e raschiato dal vento e dalla salsedine, scritte appena accennate: “Albergo-Ristorante...” non importa cosa, conta che la natura si riprende quello che noi crediamo poterle usurpare.

L'uomo avanza, spavaldo e guadagana lo spazio, lo leva a lei, la natura, la stessa che parlava con l'islandese di Leopardi, ma anche la stessa che poi, lenta, senza chiasso, si riprende quando tutto non serve, oppure arrabbiata, ricorda che è stata offesa e porta via le vite, natura assassina pensa la gente, scrivono i giornali, senza contare agli omicidi fatti ogni giorno nel nostro vivere opulento.


Vado poi, verso l'acqua, mi inoltro sul molo in mezzo al mare, rovine di legno anche qui, in mezzo a barche in cantiere e canne da pesca che silenziose puntano all'azzurro del cielo e trattengono fili invisibili che entrano nella pelle del mare. Uomini silenziosi, ognuno con il suo sé, ognuno con qualcosa che sta là, con lui, mentre le onde riflettono il sole che sale, lento, eppure sempre puntuale, ogni giorno, ogni anno, da sempre.


Il vaporetto, ali sull'acqua, ruggisce e morde mentre si lancia verso l'isola lontana e la gente, felice, dentro la sua pancia, osserva la terra che va via, e gode del ruggito di quella tigre potente, mentre io ne avverto la puzza aleggiare qui, fra le canne di carbonio ed il silenzio di chi aspetta che lui, il suo pesce, vada alla trappola tesa.


La domenica si vive diversi, chi non ci lavora, di domenica, per riprendere fiato prima di tornare alle celle del feriale, ma si vive anche per vivere, si gusta di cose semplici, e si ha modo di ricordarsi che la vita è là, ad attendere, mentre siamo noi che la dimentichiamo ad ogni angolo che giriamo. La domenica il silenzio aiuta a ricordare che siamo umani, che forse oltre all'apparenza c'è qualcosa di altro; la domenica è uno di sette giorni, eppure ha un suo posto, diverso.


Vivere al mare ha un suo fascino, come vivere in montagna. Io sono di montagna, io al mare non ci volevo stare, ma la vita è uguale e la sento e la vedo, e il mare me ne insegna altra di vita. Vivere al mare è stata una benedizione, anche per me.


Arrivo finalmente al chiosco, la ragazza al bancone già mi conosce, sono quello della pizzetta rossa col cappuccino freddo, mi sorride e lo prepara mentre poggio le monete sul banco rispondendo al sorriso.


La vita è fatta di questo, per me.

La vita mi regala tanto.


Alzo gli occhi: il sole sale, scalda, manda sudore a me, in silenzio gli sorrido e giro il cucchiaino nel latte, devo sciogliere lo zucchero....



24 Maggio 2011





24 Maggio!

Il Piave mormora, i fanti passano, il fiume, calmo e placido, li osserva e sa già cosa accadrà di lì a poco.

La Natura ha una sua saggezza, forse rispecchia la Natura Divina del Tutto, ma è come se sapesse, se nulla la stupisse e la potesse prendere alla sprovvista. La Natura sa.

E' l'uomo che non impara nemmeno dai suoi errori, o da quelli dei padri, o dei nonni. L'uomo è un eterno bambino che deve sempre farsi male, poi piangere ed andare dalla mamma a farsi consolare; salvo, poi, dopo un po', ripetere esattamente lo stesso che lo ha portato a farsi male. Mettendoci l'amplificatore del progresso, che vuol dire, riuscire a farsi ancor più male!


Guerra!

L'Italia si deve liberare dallo straniero.


In nome di questo sono morti in migliaia, sono rimasti senza gambe o braccia, o con l'animo nero della polvere degli scoppi, con il cuore a seccarsi lentamente nel ricordo di ciò che toccò loro vivere.

Molti andarono a vedere se era vera gloria, e molti udirono cose inenarrabili, molti ne videro, tutti tornarono diversi, non più spavaldi come quando avevano marciato sicuri di cacciare lo straniero.

E lui, lo straniero, ebbe medesima sorte, medesima pena, perché anche lo straniero è fatto della stessa pasta mia, e soffre e combatte per non morire, o sperare di arrivare a domani e ricominciare a sperare.

Non si poteva pensare questo allora, a dirlo si veniva messi al muro, a pensarlo anche. Eppure...

Non c'era Internet, non c'era la globalizzazione, allora non si sapeva, la radio era in mano al potere, non come oggi!

Oggi c'è la Rete, oggi c'è la voce che corre e le cose che si sanno, oggi siamo diversi.

Oggi tutto è diverso.


Non c'è più la guerra. Le Costituzioni, anche la Nostra, aborriscono la guerra come strumento di contesa, anzi, dicono che noi rifuggiamo la guerra.

Infatti oggi la guerra non c'è più.

Oggi ci sono “operazioni di polizia internazionale”, oggi si inventano false maniere di definire le cose.

Quello che leva la mondezza dalla strada è un operatore ecologico.

Quello a cui mancano le gambe e non può correre più, è diversamente abile, eppure io posso correre e lui no. Sì diversamente...

Oggi non si ha nemmeno il coraggio di dire le cose come sono, si gioca con le parole.

I nostri soldati stanno a migliaia di chilometri, anche oggi, ma non vanno a scacciare lo straniero. Cacciare lo straniero è aggredirlo, quello che si faceva prima era aggredirlo, era usare la violenza. Oggi no!

Oggi sono operatori di pace.

Oggi portano la democrazia.

Oggi sono chirurghi di pace...

I loro fucili sono armati di proiettili, veri, più efficaci di quelli del 24 maggio di quasi cent'anni fa.

Ma oggi anche si muore, magari coi proiettili arricchiti di uranio da noi stessi. Ma non è dimostrato, non si può... non si deve dire!

Oggi vanno là non per spirito di Patria come forse alcuni andarono sulle Alpi cent'anni fa, illusi per le idiozie di altri, che stavano al sicuro.

Il mio amico che non aveva i soldi per comprare casa nemmeno in borgata fuori Roma, lui è andato 3 mesi a rischiare di saltare su una mina dei talebani, selvaggi in casa loro.

Uomini, anche loro, anche se sembrano tristi e arrabbiati.

Lui è tornato, per sua fortuna, ma mica si è divertito molto. Tant'è che non vuole più tornarci. Preferisce fare il secondo lavoro per pagare il mutuo di casa, in borgata fuori Roma, meglio che tornare laggiù a portare la democrazia...


Ci sono stato a vedere dove andarono al massacro. Ragazzi come quelli a cui spiego cose di elettronica e non gliene frega nulla e che nemmeno sanno perché io lo ricordo il 24 maggio. Come quello che gioca a fare il fidanzato di mia figlia e che là, sulle Alpi non ci andrebbe nemmeno in cartolina, perché la settimana bianca è troppo faticosa, meglio la PSP...


Allora, forse, c'era qualcosa che forse illudeva.

Almeno c'era un vago sentore di eroismo a farsi massacrare là, eppure era sempre buttare la vita. Forse obbligati, forse costretti. Come accadde a mio papà, nella guerra del '40, che non andò in Russia per miracolo. Poteva stare anche lui con il sergente Rigoni e tornare a piedi dall'inferno bianco, mio papà. O morire nel bianco, senza fare la settimana bianca, ché mio papà non ha mai saputo sciare.

Ebbe fortuna: 50 della sua divisione furono mandati altrove, a Nizza, in Costa Azzurra, a occuparla. Gli altri diecimila, invece, sulla neve. Ne tornarono forse duecento...


Quel 24 maggio è stato celebrato e forse anche io ne sento il fascino. Da piccolo avevo mandato a memoria “Il Piave mormorava”, lo ricordo anche oggi. E anche se mai avrei sottoscritto la guerra, ho rispettato tutti quelli che erano là, nei mille posti sulle montagne dove sono stato e ne ho trovato i segni anche oggi, i luoghi dove stavano a morire, anche solo di freddo .. o paura.

Oggi sono quasi cent'anni.


Oggi non c'è più la guerra. Siamo in pace. Oggi è diverso, stiamo bene e non si muore così, andando al massacro fra sassi e facendo da bersaglio a chi sta poco oltre e se la fa sotto come me, perché domani tocca a lui.

Oggi si muore di altro.


Non so se veramente stiamo tanto meglio, se veramente siamo evoluti. Non lo so mica tanto.



domenica 15 maggio 2011

Una pizzetta al pomodoro...



Al mattino fa sempre fresco, anche in estate, figuriamoci ora, a maggio.

Scendo in strada che molti ancora dormono: vado a sentire il sussurro del mare e l'odore del vento. In realtà, vado ad ascoltare il mio cuore e per questo ho bisogno di silenzio, quel silenzio dentro se stessi di cui parla Aurobindo e che mi fa sentire tante cose nuove.


Nella cittadina dove vivo, il porto è bello, pulito e ordinato, le barche messe per bene e tutte abbastanza ben tenute; ogni cosa è al suo posto, veramente adatta a quelli che hanno bisogno di vedere ogni casella squadrata ed ordinata e nulla che non sia al posto giusto.

Ma nella cittadina vicina, solo 3 km, non è così.

L'ho scoperta che è poco, la zona da diporto, ove stanno barche meno belle di quelle altre, sono più piccole, meno in ordine, ed anche quelle a vela, quelle belle, da ricchi, sembrano meno pulite, forse lo sono anche. Ma c'è qualcosa di diverso che mi attira.


Arrivo alla strada che va verso il mare, sono a piedi e il sole giàcarezza i tetti, un vento appena accennato muove i capelli di una donna che incrocio di sfuggita, lei fa jogging, io cerco altro, gli sguardi si trovano per un attimo.

Un vago odore di salsedine mi sfiora. Non amo il pesce, anzi non lo mangio affatto, eppure quell'odore mi piace, mi ricorda quando ero ragazzino e con i genitori passavo delle estati fra i porti di Gaeta Formia e loro si abbuffavano di zuppa di pesce, mentre io mangiavo la miglior pasta al pomodoro della mia vita; ero felice e spensierato, e quell'odore mi è rimasto dentro, custodito nella parte calda del cuore.


Vado verso il molo, le barchette dondolano lente; il porto si sta ancora svegliando, capelli dritti, occhi cisposi, respiro quasi stanco, ancora reduce dai sogni della notte.

Poche voci, gente mattiniera per motivi vari. Qualcuno che prepara mute e bombole, qualcuno con ami e canne varie, altri che non so bene, con uno zaino pesante da trascinare, pochi, quasi attenti a non disturbare quell'aria così magica per tutti.


Pochi metri, forse cinquanta, e sul molo compare il chiosco: poche sedie e qualche ombrellone pronto a dare riparo dal sole che tra poco batterà forte. Rumore di bicchieri o piatti, acqua che scorre, voci sorridenti, due anziani seduti con caffellatte davanti a loro e paste intinte dentro, soddisfatti del buono che assaporano e che vedo dai loro sguardi

L'odore di salsedine è più concreto, lo sciaquio che fa urtare qualche legno di barca, è il sottofondo, e mi avvicino.

E' un bar di altri tempi, di quelli che vedo nelle foto che in zona trovo in qualche locale, e che ricordano di quando gli Americani sbarcarono per andare a liberare Roma: mi ritrovo in un film che racconta di quando anche io non c'ero.

Un cesto di fragole, appena arrivate dal mercato, viene lavato per prepararle, un cartello recita :”Oggi fragole con limone o con panna” e sento i commenti di due giovani che stanno per andare in mare e che sanno già cosa avranno al ritorno.

Prendo una pizzetta rossa ed un cappuccino con latte freddo: accoppiata improbabile, eppure è quella che ho vissuto nei tanti anni avuti nell'adolescenza, e ritorno là pur vivendo qui, ora.

Quanto è buona quella pizza, unta quanto basta a farmi capire che viene dal fornaio e non da pizzeria e quanto è semplice tutto, quanto non formale, quanto non bello all'apparenza. Eppure avverto il bello dietro, dentro, lo avverto come caldo abbraccio e mi sento bene, vorrei abbracciare tutti è dovunque.


Ma devo tenere dentro, stare in silenzio e solo ora posso dirlo, dopo, quando metto le parole qui, su un foglio o in un file del computer.


Eppure una piccola pietra di valore, per me, oggi, è entrata nella tasca, e rimane nelle mani, quando vado in giro. La mano se la gira e se la sente fra le dita, l'animo se ne è appropriato.


Il porto è sporco, poco turistico, poco attraente. Eppure quel chiosco è molto più bello del bar-pasticceria che sta nella mia cittadina dove tutto è luminoso e lucente e pulito.


Oggi esco, fa fresco anche ora: vado là, voglio un'altra pizzetta unta col cappuccino col latte freddo.